Nell’insieme, l’esito delle elezioni greche non è stato una disfatta per la sinistra. Syriza ha ottenuto il 31,5% dei voti che sommato al 3,5% del partito fondato da Varoufakis, dà la percentuale dei voti ottenuti 4 anni fa, quando la vittoria elettorale aprì le porte del governo. Se si considera il fatto che la politica del governo di Tsipras ha evaso in gran parte le promesse fatte, che sotto la pressione dell’Europa sono state prese misure molte impopolari, la tenuta elettorale della sinistra appare perfino sorprendente.

La sconfitta è stata determinata, in realtà, dalla grande concentrazione del voto della parte più conservatrice dell’elettorato sul partito della Nuova Democrazia (40% dei voti) e, soprattutto, dalla divisione suicida delle forze progressiste (che, tutte unite, avrebbero superato la maggioranza assoluta dei consensi). Non si è verificato dunque un tradimento del governo di sinistra da parte del popolo, né si può parlare in nessun modo di “ingratitudine” verso chi ha tenuto bene il timone della barca nel momento della tempesta. Si può sostenere, invece, esattamente il contrario: che la maggioranza del popolo greco non ha avuto la rappresentanza che meritava, dopo anni di sacrifici enormi, sopportati con dignità.

La Grecia corre in questo momento un rischio grave: il demagogo di turno, colui che a mare più tranquillo promette approdi favolosi, può disperdere tutto quello che di buono, in mezzo a tante deprivazioni popolari, il governo di sinistra ha costruito, facendo uscire il paese dal commissariamento. La sconfitta non è stata dunque elettorale, ma politica. È venuta dall’incapacità di far diventare il consenso degli elettori un progetto politico trasformativo che colpisca il parassitismo e l’iniquità e rimetta al primo posto tre valori indissociabili: la difesa della natura, la cultura e il lavoro.

Dalle elezioni greche ci vengono due lezioni. La prima riguarda l’eterna divisione delle forze di sinistra (che attraversa anche Syriza) tra il pragmatismo di una gestione “realistica” del presente, che smarrisce il legame con il futuro, e l’utopia che abbandona il primo per costruire come ideale, inevitabilmente consolatorio, il secondo. Entrambe le prospettive uccidono la speranza. Anche quando la forza elettorale è, complessivamente, mantenuta, il progetto politico rischia l’inconsistenza. Si parla spesso del narcisismo divisivo della sinistra, contrapponendolo al egoismo coesivo della destra. È più appropriato, forse, parlare di confusione tra il sogno, l’illusione che afferra la realtà, e fantasia a occhi aperti, l’illusione che ci distrae dalla vita vera. È un problema in cui si imbatte chiunque vuole trasformare e non limitarsi a ripetere, conservare.

La seconda lezione riguarda l’Europa. La politica europea dell’austerità produce ineguaglianza e precarietà, mina le basi della convivenza democratica e civile. Non si tratta affatto di scegliere tra il risparmio e la prodigalità, ma di capire dove fare tagli e dove investire. La differenza tra sinistra e destra passa di qui ed è grande e evidente. Le elezioni greche mostrano non solo che non è sufficiente resistere alle pressioni fin dove si può, evitando il peggio, ma anche che la risposta non potrà mai venire da un solo paese. Se l’Europa unita resta un orizzonte necessario, pena la dissoluzione della democrazia e l’avvento dell’autoritarismo (di cui i sovranismi sono il primo segnale), allora le forze nazionali della sinistra o si coordinano e si uniscono tra di loro in progetto politico continentale/universale o saranno sconfitte.