Ormai quarant’anni fa (era il 1975) Enzo Jannacci usciva con uno dei suoi dischi classici più riusciti, Quelli che… . Il disco ospitava due amare ballate che, riascoltate oggi, assumono la portata ed il respiro di riflessioni sull’antropologia del nostro Paese. Quelli che…, la canzone che dà il titolo all’intero disco (su testo del compianto Beppe Viola) e Vincenzina e la fabbrica, in realtà già composta l’anno precedente come colonna sonora per Romanzo popolare di Mario Monicelli.

Due Italie venivano lì cantate da Jannacci. O meglio, due modi tra di loro confliggenti con cui gli italiani imboccavano la strada della modernità.

Protagonista corale di Quelli che… un’Italia tumultuosa, di ceti medi che si affacciano alla modernità con voracità, senza filtri. Sono Quelli che hanno cominciato a lavorare da piccoli non hanno ancora finito e non sanno che cavolo fanno, che incarnano i miti del produttivismo e del self made man, e che non hanno un approccio sfrontato solo nei confronti del potere e della ricchezza (Quelli che dicono la mia serva); ma della vita in senso lato, quando si rendono protagonisti di forme di gestione del tempo libero finalmente post-agricole (Quelli che sono soltanto le due di notte). Certo la voracità con cui questa modernità è consumata, più che metabolizzata, lascia ancora trasparire un sostrato atavico, nel familismo di quelli che cantano dentro nei dischi perché ci hanno dei figli da mantenere, come nella diffidenza paradossalmente anti-moderna nei confronti della medicina (e dell’innovazione scientifica in generale) di quelli che con una bella dormita passa tutto anche il cancro.

È un’Italia, appunto, paradossale: il paradosso di quelli che raccontano di non aver mai avuto un incidente mortale, e che Jannacci crucifigge mettendo alla berlina una neo-lingua piena di non sense e di luoghi comuni. È una nuova classe media cui qualunquismo (Quelli che qui è tutto un casino) e scarsa attitudine a ragionare criticamente sul presente (Quelli che l’ha detto il telegiornale) non impediscono di andare in cerca anche di rappresentanza politica. Un bisogno di accesso alla modernità non filtrato, sottovalutato dalle famiglie politiche della prima repubblica, e che troverà un proprio spazio politico egemonico di massa solo col berlusconismo.

Dall’altra parte, c’è Vincenzina a dover anche lei fare i conti con la modernità: la modernità dello sradicamento e della fabbrica. Ma lo fa in maniera riflessiva, critica: Vincenzina rimane, per tutta la durata della canzone, ad interrogarsi davanti alla fabbrica. Laddove Quelli che… vedono nella modernità un’occasione dogmatica di libertà, Vincenzina ha sì la percezione di una modernità come occasione di vita collettiva che può essere liberatoria, ma che istintivamente percepisce come contraddittoria, anonimizzante (il foulard non si mette più; una faccia davanti a un cancello), con tendenze totalitarie (come se non c’è altro che fabbrica).

L’Italia di Vincenzina, quella della nuova classe operaia, non è culturalmente elitaria come la vulgata populista berlusconiana dell’ultimo ventennio l’ha descritta. Vive le passioni popolari (zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui); ma la percezione del dominio di classe giunge fino a negare quelle stesse passioni (che tristezza il padrone non ci ha neanche ‘sti problemi qui), perché per quanto dentro la fabbrica ci sia odor di pulito, ciò che viene immediatamente percepito è la dimensione dello sfruttamento, la fatica.

Lo scorso fine settimana, a distanza di quarant’anni, non sono forse tornati a contrapporsi, tra la Leopolda e Piazza San Giovanni, Quelli che… e Vincenzina? Nel prendere atto dell’artificiosità della narrazione, propagandata dal finto loft della Leopolda, di un’Italia moderna frenata da un’Italia arcaica (quella della Piazza), non bisogna neppure cadere nella tentazione opposta di presentare l’Italia di piazza San Giovanni come un’Italia migliore rispetto all’altra – troppo spesso una parte della sinistra lo ha fatto negli ultimi venti anni, con risultati disastrosi. La contrapposizione è piuttosto tra due modi diversi di affrontare la stessa modernità: tra una via immediata e acritica alla modernità quale traspare dalle parole d’ordine renziane, e una via mediata e critica che, pur tra mille difficoltà, ciò che resta del movimento operaio cerca di continuare a proporre.

Sarebbe un errore spaccare in due l’antropologia nazionale lungo la linea di frattura che corre tra la Leopolda e la Piazza sindacale – una commistione di nuovo e di vecchio, di lungimiranza e arretratezza, caratterizza entrambi i momenti, né potrebbe essere altrimenti. Tuttavia bisogna iniziare a ragionare sull’inconciliabilità politica delle spinte registrate in questi giorni. Durante la Prima repubblica, le grandi organizzazioni di massa si sono fatte carico di Vincenzina, e Quelli che… sono stati lasciati ai margini dell’agone rappresentativo.

Dopo una fase di transizione corrispondente grosso modo agli anni Ottanta, il quadro si è poi completamente rovesciato con la Seconda repubblica, nel corso della quale il berlusconismo ha reso egemone il senso comune incarnato dagli esclusi di prima; ora è il renzismo a prolungare, innovandola, quella egemonia. Vincenzina è ancora più sola. Ma è in cerca di rappresentanza politica e di un progetto egemonico alternativo di cui rendersi protagonista. Si tratta di costruirlo, prima di ridurci tutti a credere che Gesù bambino sia Babbo Natale da giovane.