«Io cosa farei al loro posto, e cosa farei al posto di Sandra?». Questa domanda, e il desiderio di farla risuonare anche nella testa degli spettatori è la scommessa da cui sono partiti i fratelli Dardenne, Jean-Pierre e Luc per il loro nuovo film, che i registi belgi, già Palma d’oro per Rosetta e L’enfant definiscono come una sorta di favola moderna meno disperata di altre storie narrate in passato, perché la realtà che ci circonda, dicono, lo è già fin troppo.

 

 

Al centro di Deux jours, une nuit, Due giorni, una notte, c’è Sandra operaia madre di due bambini che rientrata al lavoro dopo un congedo per depressione rischia di essere licenziata. Il padrone dell’impresa infatti ha messo gli altri operai di fronte a una scelta: ricevere il premio di produzione di 1000 euro o rinunciarvi e permettere alla donna di restare. È chiaramente una trappola, quei soldi fanno comodo a tutti, ci sono i figli, la moglie o il marito in disoccupazione, la casa da sistemare, i mobili nuovi da comprare,problemi a cui si aggiungono le minacce del caporeparto contro di lei: basterebbe molto meno a condannarla.

 

 

Prima travolta dalla disperazione la donna prova però a reagire. Riesce a ottenere una nuova votazione, stavolta segreta, e ha davanti il fine settimana per convincere gli altri sedici operai a sostenerla. Il viso stanco, i capelli tirati, lo Xanax in borsa che manda giù in dosi pesanti, Sandra cerca di non cedere alla fragilità del suo pianto irrefrenabile, e bussa alle porte degli altri, piombando nella loro domenica di partite a calcetto o lavoretti extra al nero guardata con sospetto e rabbiosa indifferenza, spesso respinta, talvolta accolta. Dietro a quegli usci trova il Belgio (Europa) di una piccolissima classe media impoverita, resa cattiva dalla crisi e dai ricatti del nuovo/vecchio capitalismo. «Mi sento come una mendicante, chiedo la pietà» sussurra al marito che le sta a fianco in questa sua battaglia.

 

 

Sandra è sullo schermo Marion Cotillard che i Dardenne hanno voluto fortemente, anzi senza la quale dicono non avrebbero girato il film, e questa è l’altra grande novità per i registi che fin qui non hanno mai lavorato come una star hollywodiana come lo è lei.
Per spogliarla delle sue abitudini attoriali l’hanno sottoposta a molte prove, e a una lunga preparazione che riuscisse a fondarla, occhiaie e senza trucco al loro universo, permettendole di entrare in sintonia col taglio «vero» dei loro attori – tra cui l’abituale Fabrizio Rongione, e in un cameo l’amato Olivier Gourmet.Eppure lo stridore resta, e non ci credi mai davvero in lei, nelle sue canottierine, nella frenesia dei gesti che appare fin troppo sottolineata smorzando la forza del racconto. O almeno ingabbiandolo, tanto che anche il pedinamento «ravvicinato» della macchina da presa risulta a tratti distante, o persino programmatico.

 

 

È l’Europa che cercano i Dardenne, nelle sue pieghe più sgradevoli di umiliazione quotidiana, e di assuefazione alla perdita di ogni diritto. Un tempo gli operai al padrone tracotante e al suo braccio armato li avrebbero messi con le spalle al muro, avrebbero occupato la fabbrica e bloccato tutto finché la minaccia contro uno di loro non fosse rientrata. Ma adesso non si può, la crisi finanziaria ha azzerato la resistenza, delocalizzazione, contratti a termine, la minaccia cinese, il posto di lavoro è in pericolo costante, e la lotta per sopravvivere non permette cedimenti o complicità.

 

 

Come nel film precedente, Lorna, nel quale la vita resa forsennata catena di montaggio rendeva la protagonista folle, anche qui Sandra impazzisce per i modi di produzione diventando il target ideale. Farla fuori è semplice, come con tutti gli anelli deboli, migranti, donne che il complicato equilibrio familiare rende ancora più attaccabili. Siamo in una specie di Medioevo o in un nuovo incipit del capitalismo che fagocitando se stesso ha conquistato una nuoca forza. Il corpo venduto, massacrato dei lavoratori sotto qualsiasi forma, fabbrica o schiavitù dello sfruttamento clandestino, ultima frontiera diffusa (Lorna), messo sotto ricatto di un precariato che lo fa ammalare, che lo consuma coi suoi sentimenti di incertezza.

 

 

Neri racconti morali dei Dardenne non c’è però mai una retorica consolatoria, e nemmeno sentimentalismi moderati; la cifra geometrica della loro narrazione ci porta subito tra le macerie anche morali di quella che è stata la coscienza di classe, e la sua composizione, nel sentimento perduto di solidarietà tra gli individui che condividono una condizione. Questi operai sono ostili tra loro, non si conoscono e non sanno nulla l’uno dell’altro. Sandra si affanna a cercarne in rete o sulle pagine gialle gli indirizzi, ne scopre i dolori, i problemi anche se piegata dal suo dramma.
L’ inquadratura non esce mai da qui, dal ritmo di questa ricerca seriale, gesti di ansia ripetuti all’infinito di un tempo che sembra allungarsi nella sua implosione. Intorno il paesaggio senza centro, anonimo, delle nuove periferie di cui cogliamo frammenti dal bus che porta la donna da una casa all’altra, luoghi ben congegnati per non incontrarsi, per produrre solitudine che indebolisce. Sindacati e quant’altro non si sono nel film, non se ne parla neppure, siamo nel tempo post della politica, ognuno di quei lavoratori è solo.

 

 

Solidarietà. Come ritrovarla dunque finito il tempo delle grandi utopie? Resta lo spazio dell’individuo, di un frammento che può scuotere qualcosa. I Dardenne non giudicano e non fanno vittime, Sandra non lo è e non sono dei cattivi gli altri. La loro è una visione concretamente utopica, dove la solidarietà non è una dote innata ma si costruisce, da lì si può ripartire con una diversa forza resistente.