Che il Kurdistan iracheno non sia un’oasi di libertà d’espressione è fatto appurato e l’anno appena trascorso lo ha ribadito: nei mesi della crisi sanitaria ma soprattutto delle proteste popolari che hanno attraversato mezzo Iraq, la regione autonoma curda non è stata esente dalla mobilitazione e, di conseguenza, da una copertura mediatica che le autorità hanno provato con diversi mezzi ad annacquare.

AGENZIE di informazione chiuse e perquisite e giornalisti arrestati sono stati giustificati con il rispetto della legge. Come la n. 2 del 2010 che introduce il crimine mediatico di «incoraggiamento del disturbo pubblico e danneggiamento dell’armonia sociale», o la n. 11 dello stesso anno che proibisce a chiunque (anche ai reporter) di prendere parte a manifestazioni non autorizzate.

È in tale contesto che lo scorso martedì sono stati condannati a sei anni di carcere tre attivisti e due giornalisti, Sherwan Sherwani e Guhdar Zebari.

I due reporter erano stati arrestati lo scorso ottobre per aver coperto le proteste dell’agosto precedente a Duhok, una mobilitazione limitata nel tempo ma che si inseriva appieno nell’ondata di dissenso che ormai ininterrottamente dall’ottobre 2019 esplode in tutto il paese e che ha al centro la lotta alle diseguaglianze sociali, alla povertà strutturale (a fronte delle immense ricchezze petrolifere irachene) e al clientelismo e la corruzione delle classi dirigenti.

In quell’occasione, con manifestazioni che da oriente, Suleymaniya, a occidente, Duhok (la prima controllata dal Puk dei Talabani, l’altra dal Kdp dei Barzani), oltre a decine di manifestanti arrestati e pestati le forze di sicurezza avevano chiuso la sede dell’emittente tv Nrt.

Pochi mesi dopo l’arresto di Sherwani e Zebari. Il primo è stato portato via in piena notte, ammanettato davanti ai figli mentre uno dei poliziotti in borghese gli puntava una pistola alla testa, ha raccontato la moglie Jabbari ad Al Jazeera.

È scomparso per 19 giorni, è riapparso per cinque minuti (quelli concessi alla moglie per vederlo) e poi è stato posto in isolamento per due mesi. Lì è stato torturato, come Zebari, accusano le organizzazioni per i diritti umani che seguono il loro caso.

A CONDANNARE Sherwani e Zebari è stata la corte penale di Erbil che ha giustificato così la durissima sentenza: avrebbero messo in pericolo la sicurezza nazionale con critiche al governo e spionaggio per aver «raccolto informazioni segrete e averle passate a attori stranieri in cambio di denaro».

«Iniqua e sproporzionata», così il Committee to Protect Journalists (Cpj) ha definito la sentenza. Gli hanno fatto eco due dei principali partiti politici curdo-iracheni, il Puk a Gorran. Non il Kdp: ad accusarli pubblicamente di spionaggio era stato pochi giorni prima il primo ministro Masrour Barzani, figlio dell’ex presidente e storico leader del Kdp Masoud e cugino dell’attuale presidente Nechirvan (a Erbil il potere è cosa di famiglia).

«CON QUESTO VERDETTO, le autorità curde stanno mandando un messaggio chiaro – il commento di Ignacio Miguel Delgado, rappresentante del Cpj per Medio Oriente e Nord Africa – La libertà di stampa che dicono di difendere e di rispettare non viene rispettata. Il Kurdistan iracheno continua a dire di essere una democrazia. Ma quello a cui abbiamo assistito nel 2020 e quest’anno dice l’esatto opposto».

Il riferimento è ai dati raccolti dal gruppo curdo Metro Center for Journalists’ Rights and Advocacy che, lo scorso anno, ha registrato almeno 385 diverse violazioni. Tra queste spiccano quattro emittenti chiuse, 74 giornalisti arrestati, sei casi di distruzione di equipaggiamento e 42 di confisca.