Della rassegna fiorentina su Cinema e Donne conclusasi circa una settimana fa, che quest’anno è stata forse più ricca ed interessante del solito, due film piuttosto brevi, due cortometraggi, mi hanno fatto pensare con insistenza al problema della violenza sulle donne, a quanto esso sia trasversale a tutte le società e tutte le culture, e a come, malgrado le differenze geografiche e culturali, assuma sempre le stesse mdalità e le stesse caratteristiche, che sono poi quelle di un patriarcato intramontabile. Il primo, di Anya Camilleri ci mette subito a contatto con Alina, una sedicenne dell’est – rapita o comprata dalla famiglia? – che cerca di sottrarsi ai suoi sfruttatori nascondendosi in ogni possibile anfratto di una strada, di un’autostrada, senza riuscire a trovare riparo, ossessionata dalla paura di essere trovata e in difficoltà per la lingua, soprattutto spaventata da ciò che le è accaduto e terrorizzata al pensiero di essere rimessa a battere su una strada qualunque. Una bella ragazza che potrebbe fare la modella ci appare come una gazzella spaurita e, quando viene trovata dalla polizia, vediamo che dietro un orecchio, ferito e suturato alla meglio, porta stampigliato il prezzo delle sue prestazioni, un po’ come i numeri che venivano impressi sulle braccia degli ebrei nei campi di concentramento. La barbarie che credevamo finita con la guerra si proptrae oggi nel traffico di ragazze avviate alla prostituzione. Non dico nulla di nuovo: le possiamo vedere sulle strade di periferia di ogni città italiana, molte di colore, più o meno belle, più o meno svestite. E l’idea che i loro clienti siano uomini che incontriamo quotidianamente, magari sposati e con figli, ci dice tutto sulla fatale asimmetria in base alla quale il corpo femminile è un valore che svilisce, ed ha un prezzo di cui nella maggior parte dei casi sono uomini quelli che guadagnano. Anya Camilleri, la regista del corto A girl of no importance (Una ragazza senza importanza) ha dichiarato che è stata talmente coivolta dal problema di queste ragazze comprate o rapite e portate dall’altra parte della terra a prostituirsi che vuol tornare sull’argomento con un film più lungo, che abbia maggiore impatto sul pubblico. Ma bisogna dire che anche questi 15’ minuti restano impressi nella mente anche per la pulizia e la sintetica professionalità con cui il film è stato girato.

L’altro film è di Laura Cini, che recatasi in Uganda è venuta a conoscenza di una storia locale molto particolare: l’isola di Akampene, assieme ad altre al centro del lago Bunyonyl, sta per essere definitivamente sommersa dall’acqua che la farà scomparire. La regista immagina che l’isola abbia una voce femminile e che voglia raccontare la sua storia, che in qualche modo ha sempre avuto a che fare con la morte, perché in un non lontano passato le ragazze che erano state sedotte e non sposate venivano portate ad Akampene e là abbandonate senza cibo, a morire di stenti. Le più coraggiose si inoltravano nel lago per morire affogate ed evitare una lunga agonia. L’idea che anche in un paese come l’Uganda, in un angolo sperduto di mondo dove avrebbero benissimo potuto sopravvivere le antiche civiltà matriarcali, le regole sociali siano state non molto diverse da altri paesi evoluti, l’idea che solo per dei rapporti prematrimoniali – ovviamente voluti da maschi – le donne giovani meritino sempre il castigo, è un’idea intollerabile che travalica le diverse culture e che paurosamente ci dice quanto anche la nostra società più evoluta sia sempre in potere degli uomini.