Dopo essere stata a lungo considerata il gold standard della scrittura critica, la monografia, e la monografia d’artista in particolare, è oggi un genere screditato da decenni di accanita decostruzione del mito dell’artista-demiurgo e soprattutto dalla crisi o dalla terminale insufficienza della concezione di soggettività – razionale, umanistica, occidentale – a esso inevitabilmente associata. E tuttavia, come ha scritto Gabriele Guercio – che alla sua storia ha dedicato un libro importante (Art as Existence. The Artist’s Monograph and Its Project, The MIT Press 2006) –, la monografia resta anche, paradossalmente, un progetto incompiuto, che nel suo abbracciare e interrogare al tempo stesso la missione creativa degli artisti e lo statuto delle opere d’arte ripropone una questione antica e sempre bruciante: l’incontro enigmatico, insieme oscuro ed esplosivo, tra arte, destino individuale, realtà storica.
Brevi, fulminanti carriere
Nel corso della sua vicenda, dalle Vite di Vasari alla sua diffusione ottocentesca, alle molteplici incarnazioni nel XX secolo e sino a oggi, la monografia è stata in effetti declinata in diverse e contrastanti modalità, dal catalogo meticoloso all’evocazione poetica alla militanza più intransigente, rimanendo fedele all’idea di una relazione ineludibile tra opera e autore, tra identità soggettiva e creazione artistica, ma senza per questo cessare di interrogarne e ridefinirne la costitutiva instabilità. E questo è in effetti lo sfondo problematico implicitamente convocato in due recenti monografie, Monsieur Zero 26 lettere su Manzoni, quello vero, di Andrea Cortellessa (Italosvevo, pp. 136, euro 14,00) e Passione dell’indifferenza Francesco Lo Savio, di Riccardo Venturi (Humboldt Books, pp. 157, euro 16,00). Libri che affrontano la vicenda di due tra le figure maggiori della vicenda artistica italiana del secondo dopoguerra – entrambi prematuramente scomparsi dopo brevi, fulminanti carriere – mettendo appunto al centro della loro indagine, storico-critica non meno che morale, la difficoltà di dar conto di due così tragicamente ironiche eppure luminose dissimetrie tra ars e vita.
Entrambi i volumi rispondono alla difficoltà, o forse all’impossibilità, di praticare oggi il genere della monografia riformulando il nodo della relazione tra opera ed esistenza al di là delle abituali, inefficaci nei due casi specifici, scansioni cronologiche o stilistiche. Per recuperare al presente quelle esperienze occorre in effetti fare in modo che il materiale biografico, perché possa dire dell’opera ciò che alla vita è per sempre precluso, sia costretto a guardarsi dal di fuori. Per questo Cortellessa e Venturi applicano alle rispettive narrazioni una metrica non ortodossa e solo apparentemente arbitraria: un alfabeto di ventisei parole-chiave per Manzoni (da «Alfabeto», appunto, a «Zero»), cinque città-chiave per Lo Savio (Marsiglia, Milano, Roma, Leverkusen, Torino). Sequenze in realtà ben radicate nel vissuto creativo dei due artisti e che dicono in modi diversi una cosa simile: la necessità di rimontare anacronicamente nella genesi delle opere il loro après coup, la loro posterità. Del resto, l’opera – lo scrive Cortellessa di Manzoni, ma il ragionamento può valere anche per Lo Savio – non esprime la vita: la divora. E opera e vita, si potrebbe aggiungere, diventano tali solo se accadono come sguardo, come contatto, come scrittura, in un tempo fatalmente postumo.
D’altro canto, se la ricostruzione delle parabole di Lo Savio e Manzoni appare sempre sostenuta da acute riletture di testimonianze e documenti, il vero aspetto saliente di entrambi i libri è senz’altro il modo, brillante e idiosincratico, in cui essi trasformano questi materiali in fulcri di nuove interpretazioni. È in questa giuntura che essi mostrano – in segreta polemica con un certo conformismo neostoricista di cui la cultura storico-artistica italiana sembra non poter fare a meno – che critica e filologia sono indispensabili l’una all’altra, e che anzi, alla fine, sono momenti di un medesimo movimento del pensiero.
I due libri ribadiscono del resto una lezione fondamentale: l’arte non nasce nel vuoto. Al contrario, matura in una rete di relazioni allo stesso tempo personali e culturali, in rapporti di affinità, di competizione, esposta all’angoscia dell’influenza e al rischio dell’irrilevanza. Quelle di Manzoni, il milanese estroverso, e di Lo Savio, il romano malinconico, sono così mostrate come esperienze profondamente radicate nel dibattito della loro epoca. Protagoniste entrambe, in quei primi anni sessanta, della spinta alla risignificazione dell’operazione artistica nel nuovo, vertiginoso orizzonte della società di massa.
Ma per far emergere pienamente questo aspetto occorre un ribaltamento di prospettiva, occorre strappare l’arte all’epoca, l’opera all’autore. Se il gusto della provocazione e lo humour sono cifre da sempre riconosciute nell’opera di Manzoni, Cortellessa ne svela il brivido, il senso del vuoto, del fallimento sempre incombente che la percorrono sotto la pelle. Si veda ad esempio alla voce «Essere», dove la tautologia manzoniana è riletta alla luce non tanto della (scontata) filiazione dal ready-made quanto di quel senso di radicale immanenza che è insieme il nucleo essenziale e l’eredità più ingestibile di Marcel Duchamp, l’anartiste che alla fine della sua vita confidava a Pierre Cabanne di considerare il vivere, il semplice respirare, come il vero oggetto della propria arte. «Un quadro vale solo in quanto è, essere totale: non bisogna dir nulla: essere soltanto», gli fa eco Manzoni in un testo del 1960, con una presa di posizione concettuale avant la lettre al cui centro vi è una volontà di abolizione della metafora, vale a dire della presunta capacità dell’arte di trascendere la materia, un ragionamento di Sanguineti che Cortellessa, con felice cortocircuito critico, trasla dall’opera di Burri a quella dell’artista più giovane. L’apertura alla materialità dell’esistenza, a una effettiva convergenza arte-vita, porterà Manzoni, come nella Base magica (1961), sempre più a includere lo spettatore nell’opera come sua parte attiva e anzi fondamentale.
L’utopista febbrile
Analogamente, dietro l’introverso, scontroso Lo Savio, Venturi scopre l’utopista animato da un’energia febbrile, sognatore ossessivo di un’arte che abbraccia e trascende tutti i media tradizionali per immaginare uno «spazio-luce» totale. Oppure, è una della più notevoli aperture critiche del libro, il visionario che rilegge in senso non più solo estetico, ma esistenziale ed erotico quella dialettica tra «sensazione concava» e «sensazione convessa» di cui parla un passo de L’uomo senza qualità di Musil, libro tra i preferiti dell’artista. Due modi – il concavo e il convesso – di sentire e di costruire il mondo secondo le leggi di una fisica della sensibilità. È in questa luce che è possibile rileggere opere di grande suggestione come le Articolazioni totali, esposte nel 1962 a Roma nell’indifferenza generale, in cui la scultura non solo si apre all’ambiente ma anche a nuove forme di relazione tra umanità e mondo, a una nuova divina proportione. Nella ricerca di distacco, nella ossimorica «passione dell’indifferenza» incarnata in questi lavori, si cela un’apertura al tutto della possibilità creativa, ovvero, per usare un altro concetto caro a Duchamp, a quella «bellezza di indifferenza» che è il terreno proprio di un’arte ormai sottratta a ogni criterio di gusto e allo stesso soggetto-artista, divenuta forza immanente del divenire della vita.
Al di là della circostanza casuale della loro simultanea pubblicazione, che crea la possibilità inattesa di leggere le traiettorie di Lo Savio e Manzoni come vite parallele, i due libri, densissimi a dispetto delle dimensioni contenute, attestano ciascuno a proprio modo il motivo della insostituibilità della monografia come genere critico: rideclinando al presente un’esperienza di creazione, alterano non solo il nostro modo di guardarla ma ne rivelano il valore di profezia, l’eccedenza dal loro tempo, la necessità di futuro. In altre parole, ne additano una diversa, rinnovata, fertile storicità.