Forzare il caos della psiche a ordinarsi nella coerenza di una trama narrativa, costringere in una forma ciò che sostanzialmente ne è privo: questo l’intento ricorrente e dichiarato dei romanzi di Nicole Krauss, scrittrice americana le cui radici ebraiche, incarnate nel padre che visse a lungo in Israele, si fanno più evocative via via che il tempo avanza, sebbene l’elemento autobiografico fosse presente da sempre. Anche gli imprevedibili risultati che nascono dalla combinazione apparentemente casuale, o dettata da associazioni mentali non governabili, di elementi narrativi eterogenei sono il precipitato di una scommessa più volte esplicitata dalla scrittrice statunitense, che sembra cercare punti di congiunzione tra le lineee di fuga lungo le quali indirizza i suoi romanzi, e li trova vuoi in un oggetto – la scrivania dalla quale combatte la sua battaglia con la pagina bianca nel precedente romanzo, La grande casa, vuoi in un luogo fortemente caricato di proiezioni simboliche come l’Hilton Hotel di Tel Aviv, dove si incrociano – senza saperlo – uomini, donne e relative vicende del romanzo appena uscito da Guanda, Selva Oscura (traduzione di Federica Oddera, pp. 330,  euro 19,00).

Entrambi in fuga dal passato
Due i personaggi che si contendono il primo piano, a capitoli alterni, figurando l’uno come il precipitato di una dissipatoria irresolutezza, l’altra di una inquietudine che si traduce nella percezione della incerta appartenza al reale di quanto le succede. Epstein è un uomo fondamentalmente incontenibile, abituato a forzare i propri limiti fino a capovolgere l’esito naturale delle sue inclinazioni, litigioso e combattivo, sempre in tensione per l’impegno che infonde in ogni cosa. Le sue vicende – perlopiù peregrinaggi alla ricerca di un ubi consistam – sono raccontate in terza persona da un narratore la cui capacità di visione non va più in là delle contingenze.

Nicole, invece, la protagonista femminile che è personaggio di finzione il cui nome (e non solo) coincide con quello dell’autrice, parla in prima persona, e dichiara a più riprese come il suo scopo sia trovare una cornice per ciò che non la tollera – emozioni, sentimenti, ansie, separazioni: dovrebbe funzionare, a questo contenimento formale, la stesura di un romanzo al quale sta lavorando, ma la scrittura cui ha delegato il compito di raccogliere e tradurre l’istanza regolatrice di cui necessita si sottrae alla volontà di Nicole: «Più scrivevo, più mi apparivano sospette la logica e la studiata bellezza ottenute grazie ai meccanismi della narrativa. Non volevo rinunciarci: non volevo vivere senza quella consolazione. Volevo utilizzarle in forme capaci di contenere l’informe, per poterlo avvicinare così come ci avviciniamo al significato, e per poterlo affrontare».

Entrambi, Epstein e Nicole, dividono le loro vite fra New York e Israele, entrambi hanno un matrimonio più o meno sfasciato alle spalle e intrattengono con le loro radici ebraiche un rapporto di attrazione e repulsione, la prima motivata da quel che offre la tradizione, la seconda giustificata dalle pratiche degli officianti, dalle celebrazioni un po’ ridicole che vengono allestite nel corso del romanzo.
Le vite di Epstein e di Nicole non si somigliano se non per il fatto che sono entrambi in fuga dal proprio passato, e perché condividono una strana predilezione per quel brutto, confortevole albergo che è l’Hilton di Tel Aviv, dove Epstein ha l’abitudine di piazzarsi per ricevere i suoi ospiti, e dove Nicole è stata concepita e torna quasi ogni anno, come a raggiungere, lì, «la casa della mente che immagina il mondo».
Potrebbero venire prelevati dalla trama del romanzo numerosi elementi di suspence, ma Nicole Krauss non li utilizza come tali: non ne sfrutta le potenzialità romanzesche, piuttosto quelle speculative. Poi li lascia cadere senza portarli alle loro conseguenze ultime, comunicando all’intera struttura di questa duplice storia di vite irrisolte un che di sospeso, vaghissimamente irreale benché ancorato a fatti tangibili.

Decine di dilazioni che stirano la trama allungandola nelle ombre della vicenda principale, comunicano un’atmosfera piacevolmente dispersiva, alla quale conviene abbandonarsi senza troppi interrogativi, né esigenze di stringere i fatti, perché i fatti sfuggono e le cornici che li accompagnano oscillano tra riferimenti a realtà anche troppo puntuali – l’immissione nel romanzo di accenni a protagonisti della politica come Peres o Abu Mazen – e fantasie difficili da collocare nel nostro mondo. Tra queste la più consistente riguarda Kafka, proprio lui, che secondo le convinzioni di Eliezer Friedman – fantomatico ex agente del Mossad, poi sedicente professore di letteratura a Tel Aviv entrato in contatto con Nicole – non sarebbe morto nel 1924 in un sanatorio di Kierling, come tutti noi credevamo, bensì in Palestina nell’ottobre del ‘56, dove era emigrato clandestinamente, già malato di tubercolosi, poi via via riportato alla salute e avviato alla professione di giardiniere.

La Palestina, ultima meta
Il motivo esplicito per cui Friedman prende contatto con Nicole sembra inizialmente consistere nella richiesta di portare a termine una pièce teatrale che Kafka aveva lasciato incompiuta e che lui vorrebbe mettere in scena; ma con l’andare del tempo l’incredula scrittrice si rende conto di essere stata tacitamente investita di un compito assai più arduo, ovvero raccontare la vera fine di Kafka, il suo viaggio e la sua morte di profugo in Palestina.

Friedman porta Nicole in Spinoza Street a Tel Aviv, dove vive la figlia ormai anziana dell’amante di Max Brod, Esther Hoffe, che ha distribuito centinaia di pagine ignote in diverse cassette di sicurezza e altre le custodisce sciattamente in una valigia di cui Friedman si impossesserà. Come giustificazione del desiderio di morire in Palestina, il fantasioso professore israeliano adduce per Kafka qualcosa di convincente: poiché egli riteneva di non avere alcuna residenza in questo mondo, e poiché concepiva il suo luogo esistenziale solo nella irrealtà della letteratura, la Palestina era il posto ideale al quale approdare, in quanto inconsistente come una finzione, forse ancora da inventare.

Strappata a forza dai suoi pensieri, dal ricordo dei bambini e del marito abbandonati senza una giustificazione plausibile a New York, distolta dalla sua esigenza di mettere in forma di romanzo i propri appunti mentali, Nicole incrocia riluttante la strada dello studioso di Kafka; eppure, alla fin fine, sembra disposta a accordare alle sue congetture qualche consistenza, quando gli accidenti che le capitano – il trasferimento forzato nel deserto a opera dell’esercito israeliano che l’aveva fermata a un posto di blocco – si incrocia con una sorta di sdoppiamento della sua personalità e la conseguente fantasia che il luogo dove ora si trova fosse quello dove Kafka aveva speso i suoi ultimi giorni.

Quanto a Epstein, sebbene raccontato in terza persona, il suo personaggio è decisamente più attrente, e le tranches di romanzo che lo riguardano meno divanganti in digressioni al limite del resoconto saggistico (come lo sono, invece, i brani che riguardano Kafka).
Il romanzo ha inizio con la sua scomparsa: nato in Palestina e poi emigrato in America con i genitori morti di recente, Epstein è a Tel Aviv ma nessuno sa dove, e quando la polizia investigativa farà entrare i suoi tre figli nell’alloggio finalmente scovato, si scoprirà che questo facoltoso ex avvocato di successo, per la ricerca del quale si era mosso Shimon Peres, viveva in un edifico fatiscente nei pressi del porto di Jaffa.

Già dall’incipit assistiamo alla sua metamorfosi, una progressiva perdita di interesse per le sue abituali fonti di piacere, ciò che lo induce a separarsi dai suoi beni, a regalare quel che possiede, e a dissipare i suoi averi. Al figlio dice che «sta liberando spazio per pensare»; ma tutte le elucubrazioni presenti nel romanzo sono per la verità appannaggio di Nicole.

Epstein è un personaggio che agisce, viaggia, sonda il terreno adatto a piantare una foresta in memoria dei genitori, per ricordare i quali a un anno dalla loro scomparsa si adopera a scegliere possibili istituzioni alle quali devolvere una cospicua donazione. Finirà, tra l’altro, per finanziare un film su Re Davide, dalla cui stirpe il rabbino Menachem Klauser è convinto che lui discenda: nelle pagine dedicate ai festeggiamenti in onore degli eredi del re di Israele, Nicole Krauss converte il suo scetticiamo in distanza ironica, mantenendosi tuttavia in un prudente equilibrio che non scivola mai nel sarcasmo.

Appena percettibili, i rimandi interni al romanzo – l’eco nella vita di Nicole di quanto accade a Epstein e viceversa – funzionano a creare un tessuto, sebbene a trama larga, con molti fili e pochi nodi di congiunzione; salvo la figura di un uomo che si lancia da una finestra dell’Hilton, sotto gli occhi di Nicole, sdraiata ai bordi della piscina: è questa l’unica apparizione che torna due volte, e conclude il romanzo sospendendolo in una atmosfera di significati non accertabili.