La giornata di martedì passerà agli annali come una delle più infauste nella tormentata storia della democrazia del nostro pese. A Montecitorio è andato in scena il suicidio assistito del Parlamento e gli assistenti sono stati veramente troppi, 553, nient’affatto animati da virgiliana pietas.

Surreali le dichiarazioni di voto finale, ove ognuno, tranne i 5stelle, ha dovuto motivare o perché votava sì dopo avere votato no per tre volte lo stesso identico testo o perché continuava ad approvarlo malgrado venisse proposto dai peggiori nemici. Le argomentazioni a supporto di un simile trasformismo non potevano quindi che essere imbarazzanti e infondate. Non solo la logica non aveva varcato il portone di Montecitorio, ma neppure il buon senso. O se c’era – come scriveva il Manzoni – «se ne stava nascosto, per paura del senso comune», monopolizzato dalla logica del “Vaffa”, dal disprezzo per il principio di rappresentanza, dallo scherno alla democrazia rappresentativa, in nome di una democrazia diretta che non riempie le piazze ma muove le mani sulle tastiera dei computer.

L’argomento del risparmio per le casse dello Stato è stato smontato anche contabilmente da fonti affidate: lo 0,007% in meno. Roba da rivalutare i bruscolini. Ma il populismo non conosce ragione né necessità di offrirne. Carica a corna basse, dileggia e mortifica chi cerca di addomesticarlo. Travolge la storia e la memoria.

Si è sentito persino ripetere che più volte il Parlamento aveva cercato di autoridursi. Ci provò Renzi che voleva ridurre il Senato al cortile di casa, ma venne subissato dal referendum popolare, come capitò nel precedente caso alla controriforma presidenzialista di Berlusconi nel 2006. Non era forse il Cavaliere a proporre anni addietro che tanto valeva che votassero solo i capigruppo della Camera e del Senato? Non è forse vero che così funzionano i consigli di amministrazione delle società in cui i voti si pesano a seconda del pacchetto di azioni che ognuno detiene? Una semplificazione estrema riesumata dal disegno grillino di introdurre nella Costituzione il vincolo di mandato, che lascerebbe i singoli deputati nelle mani dei capigruppo e dei segretari di partito, rendendo superfluo e noioso l’esercizio del loro diritto di voto.

Alcuni hanno sostenuto che anche la prima commissione bicamerale Bozzi negli anni ottanta, aveva discusso della riduzione dei parlamentari e che la Presidente Iotti era d’accordo. Non fu esattamente così. Allora due erano le proposte innovative, una puntava al monocameralismo, l’altra, sostenuta anche da Nilde Iotti, pensava di trasformare la Camera alta in un Senato delle regioni. In entrambi i casi, siamo molto lontani da due camerette paritarie.

A sinistra si è cercato di giustificare il sì dopo tre no, sostenendo che vi sarebbe un accordo di cornice tra le forze di maggioranza. Ma scambiare una norma costituzionale con normative istituzional-politiche, anche se rilevanti, è sempre cattivo mercimonio. Non solo questo accordo è prigioniero della ingannatrice politica dei due tempi, visto che non v’è contestualità tra le varie misure. Ma queste stesse sono inconsistenti. Mentre si ribadisce l’autonomia differenziata delle regioni, si promette l’uniformazione nell’età dell’elettorato attivo e passivo tra Camera e Senato, con l’esito malato di rendere del tutto identici i due rami del Parlamento; l’eliminazione della base regionale per l’elezione del Senato, il che richiede una nuova modifica costituzionale di non breve percorso; una nuova legge elettorale «al fine di garantire più efficacemente il pluralismo politico e territoriale». Ma come, il documento non lo scrive.

La dichiarazione di voto del capogruppo più a sinistra nella maggioranza, cioè LeU, si pronuncia per “un sistema in misura maggioritaria proporzionale”. Quindi non una legge proporzionale pura, ma mista. Esattamente come è quella attuale che ha base proporzionale ma è imbastardita da una pesante quota di maggioritario che la curva in modo decisamente incostituzionale.

Escono vincenti un gongolante M5stelle che organizza pantomime celebrative in piazza, ma anche tutte quelle forze più o meno oscure che sognavano da tempo di imporre la logica della governance d’impresa al posto della democrazia parlamentare.