Probabilmente Kevin Feige, l’architetto del Marvel Universe cinematografico, verrà considerato in futuro con il medesimo rispetto di cui gode oggi un Roy Thomas, per esempio, fra i fan più anziani, quelli che si sono formati leggendo gli spillati di molti decenni fa. Feige è riuscito nell’impresa di riscrivere la famigerata continuity, ossia l’impalcatura che salda insieme tutte i vari angoli della galassia e serie marvelliane, creando di fatto un terzo Universo che si associa a quello classico e Ultimate (anche se quest’ultimo risulta in stand by) ibridandolo ora anche con gli spin off televisivi. Feige ha letteralmente reinventato le strategie editoriali di Stan Lee, le classiche legate a un evento o a un personaggio e disseminate su numerose testate, esplorando così anche gli aspetti più reconditi di una vicenda, attraverso prospettive diversificate. Come Lee, anche Feige dissemina gli indizi relativi all’insieme dell’architettura portante con arguzia bizantina.

THE FALCON and the Winter Soldier si svolge nel «post-Blip», ossia il momento nel quale il genocidio voluto e provocato da Thanos viene annullato (da Bruce Banner) e tutto torna alla normalità (o quasi). Con WandaVision abbiamo potuto vedere cosa accade – anche – durante il Blip mentre con The Falcon and the Winter Soldier siamo in un mondo ormai orfano di Capitan America, dove Sam Wilson, il fido Falcon, compie il gran rifiuto di rinunciare allo scudo di Steve(n) Rogers. Coloro familiari con il pantheon dei supereroi Marvel sanno che Capitan America è il personaggio cardine, il simbolo nel quale tutti i valori della «casa delle idee» sono incarnati. Ancora più che nell’Uomo ragno.

Capitan America è sempre stato il metro politico sul quale la Marvel ha riflesso le trasformazioni della società statunitense. Basti pensare, per esempio, al ciclo di episodi scritti da Ta-Nehisi Coates, o al momento in cui Cap indagando su un’associazione criminale nota come l’Impero segreto (riferimento per nulla velato al Watergate dello sceneggiatore Steve Englehart) rinuncia al suo costume tradizionale sentendosi tradito nei suoi valori più profondi.

CAPITAN AMERICA è il convitato di pietra della serie di Malcolm Spellman (al suo attivo anche Empire). Falcon (Anthony Mackie), anche se al servizio delle forze armate, se la passa male (pure Tony Stark non c’è più…) e non riesce nemmeno a farsi fare un prestito dalla banca per salvare il peschereccio di famiglia. Bucky Barnes (Sebastian Stan) non sta meglio. Nel ciclo di storie sceneggiate da Ed Brubaker siamo venuti a conoscenza di come l’ex braccio destro di Cap sia stato trasformato dai servizi dell’Unione sovietica (nella serie tv Hydra) in un assassino spietato dotato di un braccio al vibranio. Nella serie di Spellman, Bucky ha 106 anni, non perdona a Falcon di avere rifiutato di essere il nuovo Cap ed è costretto a vedere un’analista. Spellman ha assimilato alla perfezione la lezione di Stan Lee: supereroi con superproblemi. A tutto ciò si aggiunga un gruppo di insorti che trafficano in vaccini (ops…) dalle parole d’ordine anarcoidi («un solo popolo, un solo mondo») tutti modificati geneticamente dal medesimo siero del super soldato che ha reso il gracile Steve Rogers il simbolo Capitan America.

SIN DAI PRIMI due episodi, è evidente come gli autori abbiano voluto rendere meno fumettosa e più «politica» (virgolette obbligatorie) la serie. Falcon parla arabo (alla fine dell’intro jamesbondiana del primo episodio che si svolge nei cieli della Tunisia e che rischia di sconfinare nello spazio aereo della Libia) e, nel rifiuto di essere Capitan America, vibrano delle note che alla luce di tutto quel che è successo negli Usa, assumono un forte senso polemico (per chi è interessato a coglierlo, ovviamente). Bucky, che ha combattuto con Cap e ne condivideva i valori rooseveltiani, non capisce, provenendo da un altro mondo. Questa divaricazione è probabilmente l’invenzione di sceneggiatura più riuscita perché, nell’opposizione fra Falcon e Bucky, che battibeccano come due nerd, vive un’idea di America che fatica a ritrovarsi anche in coloro che ieri erano percepiti come vicini.

Il momento topico della polizia che prende immediatamente le difese di Bucky mentre discute con Sam perché non riconosce Falcon ribadisce senza ambiguità che anche da supereroe un afroamericano resta sempre un cittadino di serie B per gli uomini in divisa. Nonostante il grande disquisire sul cinema messo alle strette dalle piattaforme vod, e in particolare da Disney+, è innegabile che alcune delle cose più interessanti dell’attuale dibattito culturale viaggino attraverso canali extracinematografici. The Falcon and the Winter Soldier, nel caso le premesse contenute in questi due primi episodi fossero mantenute, promette di aggiungere nuovi elementi di complessità all’universo Marvel secondo Kevin Feige. E il cliffhanger alla fine della seconda puntata non può che promettere bene. La parola magica è… Zemo.