Per gli scettici, nessuno meglio di Duchamp incarna la mistificazione dell’arte contemporanea, essendo colui che ha deriso lʼingenuità del pubblico spacciando pisciatoi e ferri vecchi per opere da collezione. Eppure, la sua conquista più grande è proprio il dubbio che con ogni lavoro insinua nell’intelligenza di chi l’osserva, in un gioco infinito di ribaltamento del senso e di rovesciamento delle posizioni, innanzitutto tra autore e spettatore. Duchamp ha schiuso un orizzonte di possibilità impensate e stravolto il concetto stesso di arte rinunciando a ogni forma di abilità artigianale, liquidando l’eroismo e il divismo dell’artista moderno. È grazie a lui se oggi l’arte viene considerata un’operazione intellettuale che può a buon diritto impiegare qualunque tecnica o materia senza mai dipendere da alcuna.
Artista caro alla critica
Ciò fa di lui uno degli artisti del ventesimo secolo più cari alla critica, inclusa quella italiana, perché la sua opera offre occasioni di stimolanti esercizi interpretativi; di qui l’inflazione di commenti, esegesi, letture e riletture. Malgrado il rischio di finire su una strada molto trafficata, Elio Grazioli torna sull’artista francese in Duchamp oltre la fotografia Strategie dellʼinfrasottile (Johan & Levi, pp. 88, euro 16,00) e lo fa in qualità di studioso che ha già scritto sia su Duchamp che di fotografia. Il suo nuovo saggio muove dallʼipotesi che la nozione duchampiana di «infrasottile» consenta di riesaminare il rapporto dell’artista con il medium fotografico. Duchamp, in effetti, negli anni ha fatto ricorso spesso alla fotografia, sia pure in maniera trasversale e per interposta persona, senza mai scattare personalmente una foto. Grazioli ripercorre quindi in senso più o meno cronologico la carriera dell’artista, soffermandosi brevemente su alcune opere – tra cui Il grande e vetro (1915-’23), Tu mʼ (1918) e Dati: 1) la caduta dellʼacqua, 2) il gas dʼilluminazione (1946-’66) – per enucleare una serie di temi peculiari e tracciarne la connessione con la fotografia, o meglio con le implicazioni teoriche del dispositivo fotografico. Incidentalmente l’autore allarga il raggio delle proprie considerazioni fino a ricollegarsi a questioni più ampie di estetica della fotografia. Nel suo sviluppo, l’analisi di Grazioli attinge alle critiche di altri commentatori, ad esempio Rosalind Krauss e Herbert Molderings, cuce insieme nozioni di semiotica peirciana e di psicologia freudiana e lacaniana, dialoga con Barthes, Baudrillard, Stoichita e Lemagny. Molta carne al fuoco.
Si comincia dal raffronto tra Nudo che scende le scale, n. 2 (1913) e la cronofotografia di Étienne-Jules Marey, e si apprende che l’interesse di Duchamp per la fotografia è stato precoce ma subito lontanissimo da finalità di mera rappresentazione. Accantonata la funzione descrittiva e documentaria, Duchamp usa la fotografia per cogliere del reale ciò che sfugge alla percezione sensoriale. In quanto esito di un processo riduttivo e meccanico, infatti, la fotografia preleva un istante dal flusso della continuità spazio-temporale e lo fissa; ma ad attrarre Duchamp non è il fascino tardo-romantico dell’attimo fuggente, bensì l’«indifferenza» dell’apparecchio fotografico nei confronti di ciò che sta davanti all’obiettivo: la sua capacità di registrare automaticamente senza scegliere, senza riferirsi né farsi condizionare da un gusto, un’estetica. Dunque appropriazione e non riproduzione della realtà. La fotografia cattura lʼimmagine come oggetto reale, seppur immateriale, e si propone a sua volta quale parte della realtà; in altre parole somiglia al readymade. Del resto il readymade non esprime e non crea assolutamente niente, è un oggetto di natura ambigua, un segno opaco che resta impossibile da collocare una volta per tutte dentro o fuori il campo artistico. Dietro di esso non c’è il soggetto, perché lʼintervento con cui viene scelto ed esibito è assolutamente casuale, tanto che potrebbe benissimo essere compiuto da una macchina. Lʼelezione di un oggetto qualsiasi a readymade equivale allo scatto fotografico.
Il parallelismo tra fotografia e readymade è centrale nel discorso di Grazioli, che nellʼimmagine fotografica trova un modo per discutere lo statuto del readymade. Impronta, residuo o simulacro, in ogni caso la fotografia non è mai solo quello che mostra. Inoltre, fotografia e readymade diventano per l’autore i termini per spiegare l’indagine che Duchamp ha portato avanti durante l’intero arco della sua vita sull’idea di realtà. «Se nella prima fase l’assunto generale era che la realtà stessa è già fotografia, quello dell’ultima è che il reale stesso è già readymade».
Comunque l’ossessione dell’artista è andare oltre nella conoscenza del reale, accedere alla «quarta dimensione», della quale sia il readymade che la fotografia sono evidenze indirette, ovvero indici di un’incommensurabile differenza: l’infrasottile. È questo un concetto che Duchamp elabora a partire dalla metà degli anni trenta e definisce – alla sua maniera, certo: «infrasottile è il calore che resta su una sedia dopo esserci stati seduti» – nel 1945, sebbene venga apertamente alla luce solo con la pubblicazione postuma di alcune note autografe raccolte da Paul Matisse e presentate nel 1980, in concomitanza con una mostra al Pompidou. A grandi linee, l’infrasottile (in francese inframince) è la dimensione della possibilità; più nello specifico, si tratta di una categoria estetica sotto la quale lʼartista raccoglie «tutte le sostanze, gli stati, le differenze minime, le condivisioni, i passaggi di stato al limite dell’impercettibile e del distinguibile, reali ma non ottici, non “retinici”, che si colgono soltanto con la “materia grigia”». La percezione infatti implica una quantità di fenomeni infinitesimali che la coscienza non afferra in maniera chiara ed è qui allora che entra in ballo la qualità infrasottile della fotografia, perché questa da «un lato raddoppia la realtà, ne fa letteralmente le veci, dallʼaltro acquista autonomia e finezza, ci mostra di più della realtà stessa e ce lo mostra in maniera diversa; le due cose insieme, come in un sosia in cui ritroviamo noi stessi fuori di noi, ma anche qualcosa di più e di differente che ci turba».
L’alter ego femminile
A questo processo di raddoppiamento vanno riportati i vari ritratti e autoritratti di Duchamp, compresi quelli del suo alter ego femminile, Rrose Sélavy. Tutto è riconducibile a una «strategia» necessariamente coerente. Anche quando posa come modello per fotografi come Man Ray, Mulas, Obsatz o Cartier-Bresson, secondo Grazioli è sempre in qualche modo Duchamp a orchestrare lo spartito e in ogni fotografia che lo riguarda «o crea un legame con la propria opera o poetica, o rovescia questo legame e fa opera di se stesso».
È qui che il libro mostra la corda. Il saggio è svelto e denso; ma la riflessione si sfrangia nel groviglio di spunti che pure ha il pregio di raccordare e fatica a trasmettere un contenuto veramente originale, risolvendosi nel consuntivo delle tante e tutte felici circostanze in cui Duchamp incontra la fotografia. L’effetto è infrasottilmente mitografico: un Duchamp per duchampiani. Lo stesso concetto di infrasottile, che dovrebbe servire da chiave di comprensione per quella lunga partita a scacchi che è l’opera di Duchamp, non viene qui sviscerato – ammesso che possa davvero esserlo – e in definitiva si accetta che sia un qualche misterioso ingrediente poetico. «Quando il fumo del tabacco sa anche della bocca che lo esala, allora i due odori si sposano attraverso l’infrasottile»