Caschetto vermiglio un po’ scompigliato, fazzoletto al collo e braccia larghe, come per invitare a un ballo nella cosmopolita Parigi degli anni folli. La marionetta è ora immobile nella gonna a balze ma viene da immaginarla mentre volteggia tra le mani di Jean Dubuffet, intento a plasmare l’alter ego della sua musa, la bohémienne di origini piccarde Lili Carlu, che sposerà nel 1937. Questo gioioso guizzo di arte popolare svela l’originalità della corposa retrospettiva – duecentonovanta le opere e gli oggetti provenienti dalle più grandi collezioni francesi ed europee – dedicata all’inventore dell’Art Brut, fino al 22 settembre al Mucem di Marsiglia.
Curata da Baptiste Brun e Isabelle Marquette, Jean Dubuffet Un barbare en Europe punta sul mélange tra arte e scienze umanistiche ed esplora i poliedrici interessi – dall’etnografia alla letteratura, dalla filosofia alla sociologia, con incursioni nella preistoria e nella psicologia – di una figura portante del XX secolo. La provocazione, attualissima, insita nel titolo della rassegna richiama un libro di Henri Michaux, Un barbare en Asie, in cui quest’ultimo – catapultato in una cultura estranea alla propria – scopriva di essere lui, il «barbaro». Per i due curatori, tale rivelazione sottende l’approccio di Dubuffet, il quale slega ogni atto creativo da possibili gerarchie e considera l’«arte primitiva» un inganno dell’Europa per colonizzare il mondo.
La mostra germoglia dall’ossimoro Art Brut, poetico perché l’arte è il contrario di «brut». L’allestimento firmato dall’Atelier Maciej Fiszer, particolarmente sensibile alle arti plastiche, allo spettacolo dal vivo e alle performance in spazi pubblici – Fiszer ha lavorato per otto anni nel settore museografico del Centre Pompidou – si articola in tre sezioni tematiche. Nella prima, fondata su un’architettura minimalista e luminosa, avversa all’ordine prestabilito, che genera cimase in movimento e volumi incrociati, si celebra «l’uomo comune», dal 1944 feticcio dell’opera pittorica e letteraria di Dubuffet. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’ex mercante di vini consacratosi definitivamente all’arte rigetta infatti le nozioni di «bel soggetto» e «uomo eroico». L’essere umano viene spogliato di ogni particolarismo, come in Affluence (1961) – tela uscita dalla serie Paris Circus –, rigurgitante di personaggi maschili e femminili abbozzati in maniera puerile.
La frenesia della vita cittadina nei Trenta gloriosi ritorna in Paris plaisir (1962), costruita su cellule giustapposte, dove l’effetto tremolante delle linee conferisce energia e dinamismo al continuum di sagome e fondo. Appartenenti al medesimo ciclo de L’Hourloupe – insieme di dipinti, sculture e assemblaggi realizzati con l’utilizzo di soli tre colori: rosso, blu e bianco –, nel generoso spazio disposto come un giardino-museo da Fiszer campeggiano anche Le Triomphateur (1973), costume in tessuto inamidato, resina e lattice per il quadro vivente Coucou Bazar e gli ingarbugliati ritratti della vinilica Ontogénèse (1974-75). Antidoto ai momenti più bui dell’Occupazione e della Liberazione sono, per Dubuffet, le scene rurali in cui la pittura si fa festa. In prestito dal Centre Pompidou, Paysage Vineux (1944) immerge il pubblico nella visione purpurea di uno scorcio di campagna simile a quei disegni dell’infanzia che l’artista amava collezionare. La prima sezione della rassegna si chiude su un orizzonte di graffiti, tracce anonime impresse sui muri delle città che per Dubuffet riportano a gesti primigeni e contribuiscono a magnificare l’uomo comune. Dopo aver battuto palmo a palmo le strade e i marciapiedi di Parigi con René de Solier in cerca di incisioni e messaggi «stropicciati», nel 1945 Dubuffet acquisisce una raccolta di fotografie di Brassaï, materiale che nutrirà soprattutto la sua produzione litografica. Da quest’indagine antropologica che prefigura l’Art Brut, scaturisce Les Murs, un insieme di quindici litografie stampate in bianco e nero – in mostra l’ottava tavola, Pisseurs au mur – che accompagnano l’omonima poesia di Guillevic.
Testimonianze di un mondo selvaggio e «ordinario», i graffiti sospingono il visitatore nella seconda parte dell’esposizione, la quale si distingue dalla precedente per la concezione immersiva dello spazio, organizzato come un paesaggio dalle tinte calde, in cui gli oggetti sono presentati per affinità ma senza classificazioni, dando talvolta l’impressione – voluta da Fiszer – di scivolare nell’ambiente circostante. Se la scenografia influenza emotivamente il contatto con l’universo interiore di Dubuffet, nondimeno le scelte di Brun e Marquette orientano alla conoscenza compiuta di un artista con la passione maniacale per gli archivi, aspetto che ha consentito di mettere in luce la coerenza tra le diverse attività del normanno nato nella culla dell’Havre, nonché le sue prospezioni intorno all’Art Brut. Ciò che si è spesso dimenticato – affermano infatti i due curatori – è che per Dubuffet «la contraddizione è un motore, un movimento che sprona a superare posizioni prefissate».
Seducente galleria etnografica incastonata nel grande museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo, questo segmento è un viaggio extra-occidentale, arricchito da taccuini e missive, testimonianze della densissima costellazione di rapporti intessuta da Dubuffet con gli «amanti dell’alterità». In particolare, sono gli incontri con l’antropologo svizzero Eugène Pittard (direttore del museo di Etnografia di Ginevra, prossima tappa della mostra) e gli psichiatri Charles Ladame e Walter Morgenthaler a rafforzare la critica del primitivismo. La condivisione del gusto per le maschere oceaniche con Charles Ratton e Jean Paulhan e soprattutto i proficui scambi col direttore del Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari Georges Henri Rivière ispirano a Dubuffet opere di profonda suggestione quali Venus du Trottoir (1946), trasposizione pittorica delle stele antropomorfe disseminate nella steppa euroasiatica, le misteriose Kamenaia Baba: nella stessa sala si trova un esemplare sradicato dall’Ucraina e donato sul finire del XIX secolo dal barone Joseph de Baye al museo del Trocadéro, poi museo dell’Homme. Tra il 1947 e il 1949 Dubuffet intraprende tre viaggi nel Sahara del Sud, con l’intento di disintossicarsi da una cultura opprimente che non giova al suo estro. I beduini gli insegnano i dialetti tuareg e lo iniziano alla musica indigena, la mineralità dei paesaggi risveglia il suo interesse per le materie grezze. La selezione di disegni prodotti durante questo periodo – Dubuffet esorterà anche i suoi interlocutori a disegnare, praticando così un’etnografia partecipativa – trasmette quella cultura del deserto giunta fino a noi attraverso la freschezza di uno sguardo lontano dal tarlo dell’esotismo.
La terza e ultima sezione di una retrospettiva che è già nostalgia (oltre alla memoria, resterà il catalogo edito dal Mucem in collaborazione con Hazan), si concentra sulla critica radicale della cultura umanista e su quel rovesciamento di credenze e principi che fanno eco al pensiero di Claude Lévi-Strauss. Il capolavoro Le Géologue (1950) denuncia il carattere artificioso del punto di vista. Dopo la guerra, l’uomo – a cui Dubuffet affida una lente per scrutare un paesaggio ossessivamente stratificato – non è più la misura di tutte le cose. Nuove scale di valori relativizzano il suo posto nel cosmo e nel tempo.