Albert Dubois-Pillet, l’autoritratto-copertina della monografia 1890 di Jules Christophe
Albert Dubois-Pillet, “Madame P.”, 1887, Saint-Étienne, Musée d’Art Moderne

 

Nella primavera del 2016, insieme a due pittori, feci una gita nello strano paese del Puy: i picchi di altezza vertiginosa, lo scuro rossastro della roccia vulcanica, un misto di preistoria e fantascienza. A Le Puy-en-Velay, attraversate le vie del merletto, gustata la lenticchia verde, ci inerpicammo su per la scalinata di Notre-Dame, questo lunatico edificio che spezia il romanico francese con i richiami di Oriente, Bisanzio.
Data la circostanza, ero curioso di vedere i dipinti di Albert Dubois-Pillet, il pittore-capitano amico di Seurat, in particolare quel Saint-Michel d’Aiguilhe, con l’effetto di neve, il divisionismo in una scala smorzata, che il padre dell’artista – era l’agosto del 1890 – aveva pietosamente regalato alla comunità alverniate subito dopo la morte del figlio, appena 44 anni, causa un’infezione vaiolosa contratta durante un giro di ispezione militare. Purtroppo il Musée Crozatier era chiuso per un’importante ristrutturazione: ha riaperto nel luglio 2018, ci tornerò. Intanto però sentii il carattere del paese che Dubois, trasferitovisi alla fine del 1889 in qualità di chef d’escadron (finallora era stato, a Parigi, nei quadri della Guardia Repubblicana), dovette amare con una certa intensità, per un soffio di tempo.
Come conciliare l’uniforme con la pittura? Una vita spezzata in due: il problema di Dubois-Pillet. Nato a Parigi, veniva da una famiglia di borghesia degli affari, così prospera sotto Luigi Filippo: un esile contatto con il mondo dell’arte, lo zio materno, celebre commissaire-priseur. Comincia quasi distrattamente, circa a trent’anni cioè tardi, per scappare dalla routine della guarnigione. Da Poitiers, dov’è di stanza promosso capitano, spedisce, rispettivamente nel 1877 e nel 1879, due tele autodidattiche al Salon: amorfe, inutili. Che cosa si muove nell’animo di quest’uomo che le testimonianze dicono energico e perfettamente onesto, cortese, generoso (il soccorso in denaro agli amici pittori, Pissarro e Majola), ma incrinato, sembra, sul piano sentimentale, turbato dal femminile fin quasi alla misoginia? Quale fantasma benefico o forma del possibile lo soccorre al cavalletto?
Artista della domenica, senza formazione, farà un salto impensabile ritrovandosi in breve tempo nelle schiere più avanzate dell’avanguardia parigina: fra i primi apostoli di Seurat, accanto a Signac e Pissarro padre e figlio (Angrand, Cross, e poi Luce, seguiranno). È nel 1886 che comincia a dividere i toni: le sue prove, per il rifiuto oppostogli dalla «carogna» Degas che lo schernì «Ce qui fait le mieux du pointillisme, c’est du bois-pilé» (legno frantumato), non sono esposte, in maggio, alla Maison Doré, l’ottava e ultima mostra degli impressionisti; appaiono subito dopo, in agosto, agli Indépendants. Vediamo le tappe che lo hanno condotto fin qui.
Il primo momento di celebrità era stato, maggio 1884, alla manifestazione del Groupe des Indépendants, dove presentò, dando scandalo, un Enfant mort, la cui insistenza macabra colpì Émile Zola, che vi si ispirerà, due anni dopo, per L’Œuvre, il cui protagonista Lantier, esemplato in particolare su Cézanne, dipinge un quadro del genere. Grossolana l’illusività realistica, tuttavia distante dagli accomodamenti Beaux Arts richiesti nel Salon di stato. Vuol dire che il neofita Dubois non si è accontentato di replicare pigramente l’Accademia: lo dimostra una serie di ritratti familiari, in cui comincia a firmarsi duBois PillEt, realizzati verso il 1883 a Seur (Loir-et-Cher) nella casa di campagna dell’ufficiale Paul Boucher, suo amico. Due di questi riemersero in un’asta parigina (Millon) del giugno 2018, dove potei vederli nella loro fattura alfabetica, scorretta, ma di un piglio quasi primitivistico, alla lontana il Doganiere Rousseau, con il quale d’altronde Dubois stringerà amicizia nel giro degli Indépendants: il capofamiglia Boucher quasi si mimetizza con lo sfondo decorato, secondo quella che, fra tappeti asiatici e carte da parati a racemi, diventerà una cifra del pittore; il nonno (o bisnonno) di casa, faccia di dignitoso avvinazzato, stacca invece da un crostone tutto giallo: entrambi, moustaches à la gaulois. Veniva a definirsi la prensilità ritrattistica con cui Dubois saprà poi ritagliarsi il suo spazio identitario fra i neoimpressionisti: sarà il primo, seguito da van Rysselberghe, a dividere sistematicamente in questo genere, trascurato dai sodali.
A seguire, per circa due anni, Dubois-Pillet sperimenta una paletta chiara, una pittura luminosa e frazionata di marca impressionista, con cui esordisce nel dicembre 1884, all’edizione inaugurale di quel Salon des Indépendants cui legherà, nel bene e nel male, le sue sorti: Lily Bazalgette, la sua studiosa di referimento, ha parlato di «epoque mordorée». Non è ancora il pittore scientifico al seguito di Seurat, ma in questo torno di tempo, fra gli incontri con gli homines novi, quello gli appare subito il vero maestro: ed è ricambiato in stima e amicizia, se fu il frequentatore più assiduo, accanto a Signac e Angrand, nell’atelier del boulevard de Clichy, mentre prendeva forma il manifesto del cromo-luminarismo La Grande-Jatte. Si dovette talmente assorbire nella disciplina morale di Seurat a liberarsi di tutti i residui di sporcizia romantica tramite le leggi ottiche che tentò, una volta entrato nella sua schiera, di apportare nuove determinazioni sperimentali al sistema del cerchio cromatico: più realista del re, e lo vedremo.
Prima bisogna dar conto, però, di quella specie di romanzo nero in cui si trova invischiato Dubois, uomo di rara intraprendenza, in veste di fondatore nel 1884, accanto a Redon, Seurat e Signac, della Société des Artistes Indépendants. Molti artisti continuavano a soffrire la cretineria selettiva del Salon ufficiale, così un gruppo – «buontemponi scappati da un vaudeville» secondo Fénéon – si inventò una manifestazione alternativa, in una baracca nei giardini delle Tuileries. La gestione finanziaria dell’impresa fu assurda e dolosa, allora si creò una diaspora con la fondazione di una nuova società di «indipendenti» che è il primo atto nella storia del Salon des Indepéndants di lunga vita. In questo passaggio il capitano Dubois fu tra i più attivi e decisi, assumendo il ruolo di vicepresidente nel nuovo consesso, e ciò gli attirò, da parte dei buontemponi invidiosi e incattiviti del vecchio gruppo, denunce anonime ai superiori militari, per presunti illeciti. Senza dettagliare su una vicenda che coinvolge anche la massoneria, la quale appoggiava Dubois nelle alte sfere, si tratta di un affaire minore, ma che illustra quanto i maggiori (Dreyfus) il sordido politico-militare della Terza Repubblica. L’interdizione da parte dell’esercito non impedì al capitano di continuare, e a organizzare il nuovo Salon da dietro le quinte, e a frequentare assiduamente, alla Nouvelle Athènes, alla Brasserie Gambrinus, il milieu neoimpressionista e simbolista: la doppia vita è per lui divenuta una struttura esistenziale.
Non solo: bonapartista, Dubois-Pillet aveva partecipato alla guerra franco-prussiana; cattività, liberazione, reintegrazione nell’Armée de Versailles, che stroncò la Comune con la semaine sanglante. Avendo egli alle spalle un episodio d’ordine così atroce e clamoroso, è sorprendente ritrovarlo quindici anni dopo, cresciuto nei gradi militari, intimo di un ambiente culturale (Fénéon, Luce…) che professa accesamente l’anarchia fino, poi, all’implicazione terroristica. E fra gli aspetti contrastanti nel suo dossier politico, non manca, 1889, l’accusa di boulangismo militante, rivoltagli dai suoi persecutori.
Dubois fu apprezzato, in area simbolista, da critici esoterici come Huysman, Gustave Kahn, Jules Christophe, il quale ultimo gli dedicò una breve monografia (1890) tra «Les Hommes d’Aujourd’hui», dove spicca in copertina l’autoritratto à la plume dell’artista, senza le insegne d’ordinanza di cui si fregiava, gagliardo col suo monocolo e la fronte larga, il mento squadrato, il mustacchio, e l’assurdo, enfatico fiocco azzurro. Gli occhi li aveva blu pallido.
Il primo a identificare davvero le qualità pittoriche di Dubois fu, nel celebre resoconto degli Indépendants 1886, Felix Fénéon: «La sua visione lievemente dorata conferisce all’olio una luccicante e vellutata morbidezza da pastello». In quella circostanza acquista dal capitano una tela, Pré en contrebas: descriverà il cielo «ticchiolatura di blu» e «semina di arancio chiaro» («La Vogue», settembre 1889). Le sottigliezze di quest’arte, la sua studiatissima tavolozza, sollecitano particolarmente la preziosità linguistica di Fénéon: preziosità funzionale, che sigilla le specificità espressive.
Nelle tele presentate da Dubois agli Indépendants del 1888, se «lo sviluppo dei complementari è timido», «l’alterazione dei colori locali ad opera della luce solare premia (…) altre ricerche», ecco «il dettaglio inaspettato», «la configurazione curiosa», che dice «un gusto un po’ stravagante, sempre delizioso»; ecco «la malinconia industriale, la poesia delle gru e della ciminiera», che si potevano ammirare nel 2019, alla mostra parigina Fénéon, dinanzi alla piccola tela Forge à Ivry!
L’amore che nutre per «cet homme lettré, spirituel et cordial» non impedisce a Fénéon di castigarlo nell’idea bislacca, parzialmente condivisa con Seurat, di tingere la cornice, «variazioni violette» che le tolgono «neutralità» e le conferiscono «vita propria»: «è dipinta per valorizzare il quadro o viceversa?» (l’opera – ovale che è anch’esso una novità introdotta da Dubois – è Sous la lampe, circa 1888).
È come se, giunto tardi all’appuntamento con la pittura (nato nel 1846, si avvicina ai quarant’anni quando conosce Seurat, venticinquenne), Dubois esagerasse nell’azzardo sperimentale per ansia di bruciare le tappe: in base alla teoria di Thomas Young, si intestardisce sui complicati calcoli dell’energia che stimola i vari fasci di nervi nelle sensazioni del rosso, del verde, del viola, e complica così il sistema divisionista; trasferisce nel disegno a penna e inchiostro il procedimento del puntinato, lo sottrae arbitrariamente al suo scopo originario, nondimeno realizzando, come ha visto John Rewald, «una tessitura affascinante ed effetti alquanto insoliti».
A parte gli episodi tonalmente più audaci (il Quai de Montebello, 1888-’89, nei pressi del suo signorile atelier di quai Saint-Michel, in faccia a Notre-Dame), le armonie di Dubois sono delicate, chiarore diffuso, soprattutto nel periodo – in realtà il solo anno 1888 – in cui ricorre ai grigi e ai blu, con un esito che Lily Bazalgette ha descritto «argentato». Questa finezza di passaggi egli la cerca specialmente nei riflessi dei letti d’acqua, che lo incantano (la Marna come la Senna, sia a Parigi che a Rouen), ma trova compimento nel paesaggio nevoso a Le Puy, con le sue prevalenze violette, l’atmosfera rarefatta che avvolge l’alto collo vulcanico di Saint-Michel d’Aiguilhe. Non si può dire ‘minore’ di un pittore che operò, sostanzialmente, non più di sette anni, con una produzione talmente esigua – è recente, 2018, l’ottimo catalogue raisonné on-line dedicatogli da un vero affezionato, Patrick Offenstadt.
A Le Puy, dalla finestra del suo domicilio in boulevard Carnot, il capitano Dubois-Pillet vedeva una piazza: al centro, metallica, la Croce di Missione, sullo sfondo l’irta rocca Corneille. Ho voluto andarci nella gita alverniate con i due pittori. Fra le pochissime opere realizzate in Alvernia, La place ensoleillée è un omaggio radioso e rosato alla tranquillità di provincia e una lettura così personale della lezione di Seurat, il giovane maestro sopravvissutogli appena un anno, cui, come scrisse, «devo tutto». «È lui che mi ha trasportato»: e aggiunge che forse, in questo trasporto, egli Dubois ha smarrito il suo pensiero.