Le guerre contemporanee vengono combattute con mezzi che qualcuno definisce tecnologicamente più raffinati rispetto al passato. Ma le conseguenze sono le stesse di prima, se non più deleterie.

Basta guardare la popolazione civile per accorgersene, per capire che la presunta virtualità dei nuovi conflitti vale soltanto per chi la guerra la combatte, non per chi deve sopravvivere. E a ben guardare non vale neanche per chi combatte. In Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere (Derive approdi), Gregoire Chamayou riporta un passaggio in cui Adorno, ragionando sui V-1 e V-2, gli aerei-missile lanciati dai nazisti su Londra, stigmatizza la riduzione della guerra a «misure amministrative e tecniche», per poi aggiungere una nota: il paradosso per cui «occorre tutta l’energia del soggetto per realizzare l’assoluta impersonalità». Che vuol dire? Che l’assoluta impersonalità dei nuovi strumenti di guerra nasconde sempre, in ogni caso, la scelta deliberata, dunque eticamente responsabile, di un soggetto umano. Quella responsabilità su cui si è interrogato tutta la vita Claude Eatherly, un aviatore statunitense che aveva preso parte – con un volo di ricognizione meteorologica – alla missione che avrebbe condotto allo sgancio della bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto del 1945. Eatherly avrebbe affidato i suoi tormenti alla corrispondenza epistolare con Gunther Anders, poi raccolta nel libro Il pilota di Hiroshima. Ovvero: la coscienza messa al bando.

Oggi anche i piloti «a distanza» dei droni cominciano a interrogarsi sulle proprie responsabilità, raccontano Medea Benjamin in Drone Warfare. Killing by Remote Control (Verso, 2013) e gli autori del video-documentario Drone Wars: the gamers recruited to kill.