È la genesi –e dunque il cuore –della legge Fini-Giovanardi ad essere messa in discussione, questa volta, dalla Cassazione che ieri ha rinviato la legge sulle droghe voluta dal governo Berlusconi nel 2006 alla Corte costituzionale. La terza sezione penale ha ritenuto «non manifestamente infondate» le questioni di legittimità sollevate riguardo la «totale estraneità, rispetto all’oggetto ed alle finalità del decreto-legge, delle norme aggiunte in sede di conversione con cui è stata introdotta una nuova disciplina “a regime” in materia di sostanze stupefacenti».

Come si ricorderà, il provvedimento che ha inciso «pervasivamente» sul sistema classificatorio delle sostanze stupefacenti, aumentando notevolmente le pene «per gli illeciti aventi ad oggetto le cosiddette droghe leggere equiparate a quelle pesanti», è stato inserito in un decreto legge sulla «sicurezza e il finanziamento per le Olimpiadi invernali di Torino». E già questa «estraneità» della materia, per i giudici di Piazza Cavour, è in odore di violazione dell’articolo 77 della Costituzione.

Ma in più, se ciò non bastasse, al testo del decreto-legge sembrerebbero mancare gli stessi presupposti di «necessità e urgenza», mai sanati peraltro nemmeno dalla legge di conversione che, anzi, con un maxiemendamento di fatto riscrisse l’intera disciplina sulle droghe. In sintesi, giudica la Cassazione, si è ricorsi ad un «escamotage per far apparire un’iniziativa legislativa del tutto nuova, di fatto inemendabile, eludendo le regole ordinarie del procedimento legislativo».

Con l’ordinanza 25555, dunque, la Corte suprema ha accolto in parte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’avvocata Michela Porcile, difensore di un uomo originario di Palermo condannato a 4 anni di reclusione e ad una multa di 20 mila euro per essersi rifornito di quasi 4 kg di hashish. Emerge per i giudici «che la questione rilevante nel presente giudizio e da sottoporre alla Corte costituzionale deve essere circoscritta all’articolo 4 bis» introdotto «dalla legge di conversione n.49 del 21 febbraio 2006 nella parte in cui, nel sostituire il precedente testo dell’articolo 73 del dpr 309/1990, ha abolito la distinzione tra cosiddette droghe leggere e droghe pesanti ed ha conseguentemente innalzato in misura notevole le pene edittali relativamente alle condotte aventi in oggetto le sostanze stupefacenti cosiddette leggere». Aver riunito, cioè, in un’unica tabella tutte le sostanze psicotrope a cui fa riferimento l’articolo 73, il core della Fini-Giovanardi, è il motivo per il quale le sanzioni penali risultano prive della «proporzionalità rispetto al reato» sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e dalla Carta di Nizza.
Eppure non è questo il punto focale dell’ordinanza firmata dal presidente della Terza sezione penale Claudia Squassoni e dal consigliere Franco Amedeo. Appare evidente ai giudici la «distonia tra la finalità, la ratio, ossia la ragione di necessità e urgenza che giustificava il decreto legge» e l’introduzione nel testo di conversione (legge approvata con un voto di fiducia, pochi giorni prima dello scioglimento delle camere) di un maxiemendamento contenente provvedimenti fermi da un anno in Senato. Non è dunque infondato ritenere che «l’introduzione delle nuove norme abbia travalicato i limiti della potestà emendativa del Parlamento».

Se si accettassero queste modalità «si consentirebbe ad ogni governo e alla sua maggioranza – scrive la Cassazione – di approfittare di qualunque, anche marginale ed effimera “emergenza” per riformare interi settori dell’ordinamento, utilizzando l’eccezionale potere di legiferare medianti provvedimenti d’urgenza e la speciale procedura privilegiata della loro conversione». Per Piazza Cavour, «il vulnus al sistema di ripartizione delle competenze normative costituzionalmente configurato potrebbe derivare anche dal cosiddetto abuso della prassi, da tempo invalsa, con cui il governo presenta, nella prima lettura parlamentare dell’articolo unico del disegno di legge di conversione, un maxiemendamento innovativo rispetto al contenuto originario del decreto legge, al fine di sostituirne parzialmente o interamente il testo e sul quale sarà poi posta la questione di fiducia».
«Ha ragione la Cassazione –commenta Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione camere penali – adesso se n’è persa la memoria ma fino a qualche anno fa i penalisti insorgevano ogni volta che si ricorreva alla decretazione d’urgenza considerandola uno strumento che andava applicato sul piano penale in casi rarissimi. Non è un caso se si è ricorso a questo strumento per la Fini-Giovanardi, una legge che ha prodotto pene ingiustificate e che contempla una serie di sanzioni amministrative ancora più parossistiche di quelle penali. Come mai –si interroga Spigarelli –nessuno pensa ora a fare un decreto legge sulle carceri dove effettivamente sussiste una reale condizione di necessità e urgenza?»