Risalgono al 2009 le ultime linee guida delle politiche sulle droghe. Le aveva scritte Giovanni Serpelloni, il mai (abbastanza) dimenticato allora capo del Dipartimento delle politiche antidroga. Ora, dopo un lungo lavoro che la ministra Fabiana Dadone (M5S) ha avviato un anno fa con la Conferenza nazionale di Genova (dopo 12 anni di latitanza governativa), il nuovo Piano di Azione Nazionale dipendenze (Pand) 2022-2025 è pronto per essere presentato alla Conferenza unificata dei servizi che si terrà il 12 ottobre prossimo.

Nulla di particolarmente rivoluzionario, quello che le Regioni dovrebbero approvare poco prima che si insedi il nuovo governo, anzi. Secondo molti tra i 271 esperti che hanno partecipato ai tavoli di confronto, il nuovo Pand presenta molte zone d’ombra, alcune contraddizioni ma soprattutto nessun vincolo per le Regioni che dovrebbero applicarle. Eppure, c’è voluto poco al partito della premier in pectore per gridare allo scandalo: è bastato leggere tra le 220 pagine del Pand alcune novità sostanziali – sia pur in linea con la legislazione vigente – come l’atteso riconoscimento delle politiche di Riduzione del danno che dal 2017 sono entrate nei Lea (Livelli essenziali di assistenza), o la sperimentazione in tre città italiane delle stanze del consumo sicuro, o ancora il cosiddetto drug checking, tutte realtà consolidate in Paesi quali la Germania, la Spagna, la Francia, i Paesi Bassi e la Norvegia.

Infatti, secondo la deputata Maria Teresa Bellucci, responsabile del Dipartimento dipendenze e Terzo Settore di Fd’I, il nuovo Pand è «un lavoro fatto male di un governo dimissionario» che si basa su un concetto di «normalizzazione dell’uso delle droghe», come la sperimentazione dei «servizi di drug checking e le stanze del buco, che sono l’espressione di quell’idea che drogarsi è una scelta». «La riduzione del danno – afferma la sorella d’Italia – è fine a se stessa: io ti aiuto a drogarti in maniera tale che tu non muoia». Motivi per i quali, Bellucci pretende che il nuovo Pand «non debba proprio essere trattato in Conferenza Unificata in questo momento».

In realtà, anche se venisse portato in sede Stato-Regioni, il nuovo Piano d’azione ha ben poche possibilità di essere approvato, data la predominanza di centrodestra nel colore politico delle regioni d’Italia. «Molti assessori regionali infatti hanno già chiesto la revisione del testo in senso peggiorativo», riferisce Stefano Vecchio, presidente di Forum Droghe che ha partecipato ai tavoli di studio e oggi spera ancora che «il prossimo governo mantenga un dialogo aperto con la “Rete delle Città italiane per una politica innovativa sulle droghe” (costituitasi nel giugno scorso, ndr) e con le Regioni progressiste».

Potrebbe perciò delinearsi una via d’uscita per la ministra Dadone, in modo da non concludere la legislatura buttando nel cestino il lavoro di molti mesi. Fabiana Dadone potrebbe ricorrere ad un decreto ministeriale per depositare le nuove linee guida, ben sapendo che anche così potrebbero diventare presto carta straccia. Come è noto, infatti, il feticcio della «droga» è uno dei capisaldi più duraturi dell’ideologia di destra. Eppure, come sostiene la stessa esponente di Fd’I, dal 1990, anno della legge 309, ad oggi (sorvolando sulla riforma targata Fini-Giovanardi, che venne poi smantellata dalla Consulta), «in 30 anni è cambiato tutto». Proprio tutto. Basta solo mettersi d’accordo su cosa, prima di riscrivere il testo unico 309 che, come dice Bellucci, ha «un approccio assolutamente anacronistico».