Parlare di droga implica spesso dover ricorrere a una serie di numeri, statistiche, grafici e tabelle sul cui utilizzo e interpretazione si basano i discorsi di quegli schieramenti che, anche sul tema droga, si giocano la partita dei consensi politici ed elettorali.

SI TRATTA di un modo di affrontare la questione che lascia quasi sempre immutato (quando non contribuisce a rafforzarlo) il ruolo che la droga riveste all’interno dei rapporti sociali, non soltanto in termini di dipendenza e consumo, ma soprattutto in termini di immaginario collettivo. In questo modo si costruisce, più o meno consapevolmente, una rappresentazione ideologica in cui la droga assume il ruolo di una vera e propria merce spettacolarizzata. Un intelligente tentativo di fornire una diversa chiave di lettura al fenomeno droga, rompendo con la dicotomia banale e semplicistica di chi è favorevole o contrario, viene dall’interessante libro del giovanissimo Afshin Kaveh, Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga, pubblicato dalla piccola e attenta casa editrice Sensibili alle foglie (pp. 111, euro 13).

È UN LIBRO prima di tutto onesto perché, nella sua totale assenza di pretese di tipo scientifico-accademico, guarda al mondo della droga con occhi asciutti, disincantati, volgendo l’attenzione agli aspetti simbolico-rappresentativi più che a quelli tecnici, medici o etici: proprio in questo sguardo prospettico diverso, portato avanti con una genuina spontaneità, sta il suo punto di forza.
L’argomento viene infatti contestualizzato all’interno di un quadro più ampio, senza piegarsi a quella «tendenza linguistico popolare, veicolata da ambienti medici e giornalistici» che con la sua visione bipolare pone in maniera del tutto arbitraria e ingiustificata una distinzione fra droghe pesanti e leggere: una tendenza, questa, funzionale alle «logiche neomoderne», quelle stesse logiche che spingono al consumo di droghe per fuggire da «standard di vita imposti e normalizzati», e che generano in tal modo un bisogno indotto di dipendenza. Da questa prospettiva si comprende subito come la parola droga conduca «verso la parola consumo», e come da qui non sia possibile «evitare di giungere a una terza parola: commercio». Chiunque abbia a che fare con il mondo della droga, è essenzialmente «un soggetto economico in rapporto con mezzi di produzione e consumo».

QUEL CHE EMERGE subito, infatti, con una consapevolezza cristallina, è che «il sistema suggerisce percorsi plastici e prestabiliti proponendo la sostanza droga come unica via di fuga». E così ogni potenziale discorso critico sulla droga viene neutralizzato, lasciando all’opinione pubblica una parvenza di dibattito in cui ad alternarsi sulla scena sono in realtà posizioni predeterminate, che suonano come dei veri e propri slogan: proibire, depenalizzare, liberalizzare, legalizzare. E in questo modo si dimentica il vero ruolo della droga nell’esistente, la sua reale immagine: quella di un enorme «Fascio Littorio». La droga è una sostanza intimamente fascista, una «Istituzione totale» in cui la «cultura dello sballo» è in grado di articolarsi e differenziarsi a seconda delle esigenze del mercato.

CHI HA A CHE FARE con la droga, infatti, «appartiene inevitabilmente alla propria classe sociale. La droga, invece, è semplicemente classista». Esiste la droga per i ricchi, per le classi borghesi e integrate al sistema, ed esiste la droga per i poveri, per i proletari, o semplicemente per coloro che cercano disperatamente di integrarsi. Sia per gli uni che per gli altri, ad agire è la medesima logica: il mantenimento delle strutture di dipendenza e dominio.
Fare di tutta l’erba un fascio, abbattere il Fascio Littorio che la droga rappresenta, liberandola dal «proprio ruolo di dominio funzionale allo stato di cose presente», potrebbe allora essere il primo passo per una liberazione dalla vuotezza e dalla natura spersonalizzante e riproduttiva dell’esistente. «Silenzio. Finalmente. Solo il rumore delle carezze del vento sulla pelle». Questo si che sarebbe stupefacente.