La Global Commission on Drug Policy, l’organismo presieduto da Kofi Annan che raccoglie una ventina di personalità politiche di rilievo internazionale, è da anni impegnata a produrre documenti e riflessioni per la riforma della politica delle droghe.

Il rapporto 2017 – The World Drug Perception Problem, affronta la delicata questione della percezione sociale del fenomeno droga, tuttora fortemente condizionata dai pregiudizi e dalla stigmatizzazione di coloro che usano droghe.

E poiché il linguaggio veicola, e al tempo stesso indirizza l’orientamento sociale, una parte del rapporto è dedicata a come si parla e si scrive della droga: dando il suo contributo alla campagna internazionale per un «miglior linguaggio» (better language), sull’esempio della battaglia vincente a suo tempo condotta da altri gruppi stigmatizzati, come gay, lesbiche e transgender.

Prendendo spunto dall’inventario stilistico 2017 della Associated Press, il rapporto presenta un primo elenco di termini stigmatizzanti, con relative sostituzioni «politicamente corrette».

Alcune delle espressioni all’indice sono per fortuna già desuete e le alternative proposte fanno già parte del senso e dell’uso comune di molti (anche se non di tutti). Pochi ad esempio parlano più di «tossici», o definiscono «pulito» chi ha smesso di usare droga? E chi direbbe «sporche» le urine positive a una qualche sostanza? O chiamerebbe in maniera dispregiativa «stanze del buco» le «stanze per il consumo sicuro» (Safe Consumption Rooms)?

Allo stesso modo il linguaggio bellico (si veda «lotta alla droga»), a simboleggiare l’intolleranza verso le sostanze e coloro che le usano, comincia a essere fuori corso: sempre più si preferisce parlare di «risposte» politiche al problema droga.

Più difficile la ricerca del miglior linguaggio quando si arriva al cuore del problema, la definizione di chi consuma droghe.

Il suggerimento, quasi scontato, è di sostituire «consumatore di droga» (drug user) con «persona che usa droga», in modo da evitare che un determinato comportamento (l’assunzione di sostanze) riassuma in sé l’identità del soggetto (che è poi l’essenza dello stigma, per Erving Goffman).

Ma questa formula ridondante, specie se ripetuta molte volte nel corso di uno scritto o di un discorso, rischia di suonare impacciata, risuscitando per contrasto la dizione stigmatizzante (ma più facile) destinata all’oblio.

Il successo delle nuove espressioni sta anche nella brevità e nell’eleganza stilistica, come la fortuna di «gay» suggerisce. A ciò si aggiunga che l’italiano non ha la risorsa degli acronimi come l’inglese, che abbrevia in «Pud» Person who Uses Drugs.

Altre soluzioni suggerite dal rapporto suscitano molte perplessità.

E’ davvero preferibile «in via di recupero» o «in via di recupero a lungo termine» al posto di «ex dipendente» (ex addict)?

È vero che la parola inglese addict è fortemente segnata e perfino il concetto a monte di dipendenza è oggi controverso anche in ambito scientifico; e tuttavia «persona in via di recupero» crea forse più problemi di quanti ne vorrebbe risolvere.

Dietro questa sostituzione si intravede una precisa (e obsoleta) concezione della addiction come «malattia cronica recidivante», in origine coniata per l’alcol: riassumibile nel famoso detto «chi è alcolista o dipendente da droga lo è per sempre» (once an addict, always an addict).

Perciò non si è mai fuori dalla dipendenza, e anche chi ha smesso di bere o usa alcol o droghe in maniera controllata è permanentemente «in via di recupero».
In conclusione: facciamo ogni sforzo per trovare nuove parole, ma con un poco di pragmatismo. E occhio all’etichettamento «patologico», che rischia di riprodurre altri stereotipi.