Da tempo il tema della sicurezza domina il dibattito pubblico e il binomio droga-sicurezza ha storicamente occupato la scena, anche se oggi sembra sopravanzato dall’allarme per lo straniero, nelle nostre città sempre più affollate di poveri e deprivate di servizi e di opportunità.

Tuttavia, il «discorso droga» rimane centrale per comprendere il «discorso sicurezza» e viceversa.

Nel recente convegno svoltosi a Perugia, promosso dal dipartimento di giurisprudenza e dalla Regione Umbria – Quali politiche per la sicurezza?-, Giuseppe Mosconi avanzava riserve sul termine stesso «sicurezza», che evoca una minaccia da cui difendersi, condizionando la conseguente risposta «contro».

Le politiche sulle droghe a livello internazionale si sono costruite fin dall’origine come politiche «contro» per eccellenza (la «minaccia droga»): miranti a «ridurre fino a eliminare la disponibilità di droghe illegali» tramite lo strumento penale (questa è ancora la dizione che recitano le dichiarazioni finali dei meeting periodici delle Nazioni Unite). Da notare: in ossequio a questa finalità «contro», le convenzioni internazionali, e a cascata le leggi nazionali, vanno contro principi consolidati del diritto, come quello della proporzionalità della pena in relazione alla consistenza del reato: non solo le pene legate alla droga sono in genere elevate, più elevate dei reati di violenza, ma i reati minori sono schiacciati su quelli più gravi: basti pensare all’equiparazione della semplice cessione di droga (senza alcun lucro) sullo spaccio.

La scelta della proibizione cento anni fa si fondò sull’idea che l’uso di determinate sostanze psicoattive causasse il «degrado» personale, familiare e sociale e spingesse al crimine, convogliando il biasimo su coloro che indulgevano all’uso di droghe, piuttosto che sulla povertà e le ineguaglianze sociali. Oggi la ricerca ci dice che la gran parte dei consumatori di droghe illegali riesce a tenere sotto controllo i consumi, così come avviene per l’uso di bevande alcoliche. E come ha mostrato il criminologo Alex Stevens nel suo libro Drugs, Crime and Public Health, esistono solide evidenze che i danni legati alle droghe (in particolare l’uso intensivo e la violenza legata al mercato illegale) si concentrano nelle aree socialmente deprivate. Dunque, egli sostiene, la lotta all’ineguaglianza dovrebbe essere centrale nell’affrontare la questione sicurezza.

Ciò non è, anzi. Il tema droghe-sicurezza è occupato dalle politiche «dure», che si presentano senza alternative. Nonostante la politica cerchi di rilegittimarsi tramite il modello tecnocratico, con relativa enfasi sul ruolo degli esperti e della scienza, il discorso politico sulla droga si fa forza invece del suo valore simbolico, dell’essere «contro», senza compromessi e mediazioni.

La costruzione della “minaccia” droga permette di governare i conflitti delle società post moderne, giustificando le disuguaglianze fra cittadini in termini di diritti, garanzie, accesso al bene sicurezza, a scapito di chi usa droghe.

Se l’establishment politico, internazionale e nazionale, sembra incapace di una svolta, la spinta viene «dal basso»: dal movimento per la legalizzazione della cannabis negli Stati Uniti, dal rifiuto della «guerra alla droga» nei paesi dell’America Latina, dalla «resistenza» (nonostante i tagli al welfare) della riduzione del danno: intesa come paradigma di risoluzione dei conflitti (si pensi ai conflitti urbani) tramite la mediazione fra soggetti e interessi diversi, per garantire opportunità e diritti per tutti, senza discriminazioni. Saprà questa spinta influire sulla prossima Assemblea Generale dell’Onu sulle droghe del 2016? Questa è la sfida che ci sta di fronte.