A metà marzo scorso, il Presidente Rodrigo Duterte ha annunciato che le Filippine si ritireranno dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) perché il Procuratore Fatou Bensouda ha avviato un esame preliminare sulle massicce e sistematiche violazioni dei diritti umani nell’arcipelago, causate dalla «guerra alla droga».

Secondo quanto riportato dalla stampa internazionale e denunciato da diverse organizzazioni non-governative, dall’estate del 2016 Duterte sarebbe responsabile, direttamente o indirettamente, della morte e sparizione di oltre 12000 persone e di intimidazioni, arresti arbitrari e soprusi ai danni di decine di migliaia di filippini. Lo Statuto della Cpi ritiene condotte di questo tipo «crimini contro l’umanità».
Le Filippine non sono il solo paese ad aver minacciato l’abbandono della Corte alla notizia di indagini sulle più alte cariche dello Stato; negli ultimi 10 anni diversi paesi hanno minacciato di ritirarsi dallo Statuto di Roma senza però dare mai seguito agli annunci. Duterte invece è uno che piuttosto si spezza ma non si piega. Però secondo le regole della Corte, anche nello scenario peggiore, per i prossimi dodici mesi le Filippine non potranno sottrarsi alla sua giurisdizione.

Quando nella seconda metà degli anni Ottanta il Presidente di Trinidad e Tobago, Arthur Robinson riportò all’Onu la necessità di istituire una giurisdizione penale competente su crimini di portata transnazionale commessi da individui, le sue denunce erano dirette principalmente alla corruzione e alle violenze seminate nei Caraibi dalle narcomafie durante il transito della cocaina colombiana verso il nord.

Durante i negoziati sullo Statuto della Corte Penale Internazionale il narcotraffico fu escluso dalle competenze della Corte anche perché in quegli anni all’Onu era arrivato Pino Arlacchi che predicava l’eradicazione forzata di coca e papavero, magari in combutta coi Talebani, per cancellare le droghe dalla faccia della terra entro il 2008. Da quando la Cpi è attiva, il narcotraffico non è mai rientrato neanche tangenzialmente in nessuno dei casi indagati e giudicati all’Aia.

Sebbene una trentina di Stati membri delle Nazioni Unite prevedano la pena di morte per reati di droga, e una dozzina uccidano sistematicamente centinaia di persone anche per mera detenzione di sostanze proibite, negli ultimi anni le campagne abolizioniste hanno incluso le efferatezze della guerra alla droga tra gli argomenti a favore della cancellazione o sospensione delle esecuzioni capitali da codici penali e costituzioni. Le Filippine hanno abolito la pena di morte nel 1987 a seguito della deposizione del dittatore Marcos ritenendo che possa però essere nuovamente applicata per reati gravissimi. Secondo Duterte chi ha a che fare con la droga deve subire la più severa delle punizioni: la morte.

Durante la sessione da poco conclusasi della Commissione Droghe all’Onu di Vienna, Forum Droghe, DRCNet e l’Associazione Luca Coscioni hanno organizzato un dibattito con il senatore filippino Antonio Trillanes denunciando le tecniche della guerra di droga di Duterte. Trillanes ha accusato il suo Presidente di voler punire ampie fette della popolazione per nascondere le responsabilità dell’establishment nel traffico internazionale di stupefacenti. La notte prima del suo intervento è stato accusato di sedizione – è libero su cauzione -, e da quando è rientrato a Manila si batte contro il ritiro delle Filippine dalla Cpi.

Lo Statuto della Corte è frutto di decenni di lotte contro l’impunità e se questo Stato venisse condannato per i crimini commessi in nome della «guerra alla droga», sarebbe d’importanza fondamentale per lo Stato di Diritto internazionale e contro le fallimentari politiche proibizionistiche.