Il libro che avrebbe voluto pubblicare, Daša Drndic se lo immaginava più o meno con la forma di una scatola. Dentro ci sarebbero stati tanti libri più piccoli, simili a quelli per bambini, ognuno impacchettato in una propria confezione. Il lettore avrebbe potuto estrarre dalla vicenda principale una storia per volta, seguirla nei dettagli, disporla secondo un ordine diverso. Frammenti di un’unica narrazione, benché tra loro interconnessi, avrebbero trovato un’esistenza autonoma e indifferente a qualsiasi gerarchia. Drndic era certa però che nessun editore le avrebbe lasciato scrivere un libro costruito in questo modo stravagante: non perché fosse un’idea bislacca, diceva, ma perché sarebbe stato costoso realizzarla. Ha avuto sfortuna Daša Drndic. Probabilmente, se non fosse morta proprio all’inizio del suo successo internazionale, l’avrebbe trovato un editore bizzarro, coraggioso, ostinato quanto lei. Invece se l’è portata via un cancro ai polmoni nemmeno un anno fa, il 5 giugno 2018, in un ospedale di Fiume. Lei di anni non ne aveva ancora settantadue, continuava a progettare libri e a indignarsi. «Sai quello che mi disturba veramente, quello che mi spinge a svelare segreti e bugie?», ha confidato a un’amica durante il loro ultimo incontro. «Non riesco a capire perché ci sono persone che desiderano sopraffarne altre. Non riesco a capire la necessità di ferire, distruggere, depredare. Perché siamo così crudeli gli uni con gli altri?».
Di crudeltà e sopraffazioni Drndic ne aveva sopportate parecchie durante la sua vita. Nata a Zagabria nel 1946, quando la Croazia faceva parte della repubblica federale jugoslava, era figlia di una psichiatra e di un giornalista, entrambi partigiani sotto il regime degli Ustascia. Più tardi si era trasferita a Belgrado, dove si laureò in letteratura inglese e dove ritornò ad abitare dopo un lungo soggiorno di studio negli Stati Uniti. Pubblicista, traduttrice, insegnante, produttrice radiofonica, autrice di numerose pièce teatrali e di una dozzina di romanzi, da Belgrado dovrà allontanarsi all’inizio degli anni novanta perché indesiderata nella nuova Serbia. Durante la guerra si rifugerà a Toronto con la figlia, lavorando come lettrice di croato e di serbo: rientrerà in Croazia, per stabilirsi definitivamente a Fiume, solo nel 1997. La distanza che separa le persone, la costante presenza di un doppio dentro ognuno di noi e di un futuro biforcato nel cuore tranquillo della nostra vita, il bisogno di riconoscere una patria insieme all’impossibilità di esserne accolti, l’ansia della fuga, la sofferenza della perdita, l’incertezza dell’identità sono temi che naturalmente irradiano l’opera intera di Daša Drndic. Né i suoi libri, per quanto appaiano del tutto privi di un coperchio, risultano poi molto diversi da scatole provviste di scomparti in cui piccole storie tra loro anche molto lontane si intrecciano o si sovrappongono per il volere cieco e rapinoso della Storia.
Spettrale «succhiasangue», vorace «amante-padrona dell’umanità», la Storia attraversava le pagine di Trieste, il grande romanzo uscito nel 2007 e nel 2015 pubblicato in italiano da Bompiani, con la sua spaventosa maschera di «dama ben curata». Domina non troppo diversamente l’enunciato del precedente Leica format – apparso in lingua originale nel 2003 e appena tradotto nella nostra da Ljiljana Avirovic per La nave di Teseo («Oceani», pp. 419, € 22,00) –, come una tiranna «sporca e avida», una «prostituta instancabile» e «indistruttibile». Le vicende che Daša Drndic raccoglie per il lettore nella scatola di Leica format sono come in quella di Trieste narrazioni di abusi, crimini, sopraffazioni, perpetrati sulle singole esistenze dalla perversità della Storia, in cui la realtà dei fatti si mescola alla finzione letteraria. Come in Trieste, per cui l’autrice ripudiò il sottotitolo «romanzo documentario» voluto già dall’editore croato, anche qui il testo a stampa si accompagna a disegni, fotografie, volantini pubblicitari. Lei, ha spiegato, intreccia fra loro «eventi accaduti e fatti immaginari» tessendo una stoffa narrativa tutta sua. È per lei una notevole soddisfazione, ha dichiarato ancora, che i lettori siano «talmente sorpresi da non distinguere più cosa è reale e cosa è inventato». La stupefacente potenza evocativa, la coesione drammatica di questo romanzesco bricolage si affida a uno stile monologante e saturo, sapienziale, capace tanto di sperimentare timbri diversi, quanto di assecondare un ritmo volubile, da frase a frase incalzante o maestoso. Anafore, iterazioni, analogie, richiami trapuntano un dettato cui il lettore si abbandona quasi trascinato dalla corrente in una lunga, smemorata apnea.
L’assenza di una trama forte, di un filo narrativo che appare imprescindibile in Trieste, rende tuttavia Leica format più faticoso ma insieme più affascinante da seguire. La fuga verso sud della casalinga Antonia Horst e quella verso nord della camionista Lea Moser, il tragitto del grande abete spedito a Roma dalla Croazia, il decorso della malattia di Živka detta Žile e quella di Ludwig Jakob Fritz in partenza per il nuovo continente, i viaggi degli emigranti imbarcati sul Saxonia e quelli dei bambini ebrei inabissati nella sperimentazione dell’istituto Max Planck sono cuciti in una struttura circolare dal percorso autobiografico dello spatriamento dell’autrice. Sfilano in queste pagine, come istantanee sbiadite e fuori fuoco, le vicende dolorose della madre e della nonna, di una famiglia derubata non soltanto della patria o della lingua, ma perfino di una tomba. I «morti non rispondono, nemmeno se uno li chiama», pensa Davide Segre, o anche Carlo Vivaldi o Piotr, nella Storia di Elsa Morante. Si direbbe invece che per Daša Drndic i morti siano più presenti alla vita dei vivi, che anzi siano loro a chiamarci con un soffio lieve ma tenace, chiedendoci insieme la giustizia e la memoria. Sembra quasi che nei suoi romanzi i vivi abitino la realtà come una copia incolore dei morti. Accade anche nell’onirico, perturbante Il doppio, dittico di testi incatenati – una delle cui protagoniste ritornerà in Trieste – pubblicato in Croazia nel 2002 e tradotto alla fine del 2017 da Barbara Ivancic per le edizioni liguri Oltre (pp. 181, € 16,00). Una vicenda speculare di identità disperse dalla Storia in cui Drndic comincia a scolpire la sua voce e che rimarrà per lei il libro più amato.
«Il passato non c’è verso che affondi, galleggia sulle acque che effondono miasmi attorno a sé, ma che imperterrite continuano a scorrere, di qua, di là, ovunque sul pianeta; il passato aggredisce la memoria, rovista nei ricordi, nel tentativo di ripulire il proprio mondezzaio, la grande discarica terrestre. Questo lavoro pateticamente tardivo, questa disgustosa aspirazione umana a ricevere la grazia per i peccati commessi, imperdonabili, quest’anelito all’espiazione dei peccati, inespiabili, si esercita tra sussurri e occhi abbassati, quasi in segreto», scrive Drndic in Leica format rivelando per contrasto il significato più potente e luminoso del proprio lavoro. La sua voce è un secchio di acqua gelida tirato in faccia al lettore addormentato. In questo tempo così melmoso e oscuro abbiamo un dannato bisogno di qualcuno capace di ricordarci che scrivere, lo afferma lei nell’ultimo romanzo EEG (2016), vuol dire «infilare il dito dritto nella merda» per raccontare le storie di chi una storia non ce l’ha. Riportare in vita i morti strappandoli all’indifferenza del passato. Chiamarli uno per uno.