Cosa racconta Drive My Car? Di un uomo, di una donna, di un incontro, l’inizio di tutte le storie che qui si fa però nuovamente imprevedibile, come se lo scoprissimo per la prima volta a cominciare dallo spazio che ne diviene protagonista: una Saab 900 rossa nella quale il «rituale» di un percorso – lavoro/casa ogni giorno uguale – compone pian piano la geografia di un viaggio intimo alla scoperta di sé e dell’altro.

DAL ROMANZO di Murakami, Uomini senza donne (Einaudi) a cui mescola insieme altre suggestioni dello scrittore giapponese Cecov, Hamaguchi – che con questo film ha conquistato lo scorso festival di Cannes dove ha vinto il premio per la sceneggiatura – si immerge nelle più diverse sfumature del sentimento provando a attraversarne la narrazione, quella «distanza» che permette di confrontarsi con le proprie emozioni, anche le più segrete, di elaborare un lutto, una perdita molto dolorosi. E riempie le parole di nuovi significati «traducendo» la confidenza – o l’intimità di un reciproco rivelarsi – in un testo classico, lo Zio Vanja cecoviano recitato infinite volte, che grazie a questo movimento di senso assume una nuova incarnazione.

Potere della messinscena? O variazione intorno alla vita, su quel bordo bruciante tra ciò che ci raccontiamo e ciò che invece accade, la differenza tra vedere le cose e interpretarle, la solitudine anche nei grandi amori? Le rimozioni, i silenzi, le aspettative, i segni. Il protagonista è un regista teatrale che ha abbandonato i fasti della tv per tornare a dedicarsi al palcoscenico. Adora la sua automobile, la meravigliosa Saab 900 appunto che cura gelosamente: nessuno deve fumarci dentro, non permette neppure all’amata moglie di guidarla. Anche lei lavora in televisione ma è una star, scrive storie ispirate ai suoi sogni che ama raccontare all’uomo quando sono a letto, al mattino presto o la notte, quasi che in quelle fantasie notturne si esprima un altra sé stessa o una diversa possibile loro esistenza. Una sera l’uomo rientra all’improvviso e trova la donna con un giovane amante. Senza dire nulla va via, e passa la notte in hotel.

Poi accade (e non è spoiler) che la donna muore mentre lui è via, non era una relazione semplice, c’erano altri uomini, ma lui per rispetto – o forse per paura di perderla – non aveva mai detto nulla, e poi c’era stato quel trauma tra loro, la perdita della figlioletta, forse anch’esso mai affrontato.

PER PRENDERE le distanze dall’estraneità della sua vita, l’uomo accetta di lavorare per un festival teatrale, in un’altra città, da Tokyo arriva a Hiroshima, che non è un riferimento mai casuale in Giappone ma Hamaguchi non lo carica di simboli e fa scorrere invece la bellezza e la luce del paesaggio nei finestrini, in quel percorso che si fa vita. Hiroshima mon amour.

Dovranno dunque allestire Zia Vanja, c’è un un laboratorio con attori di diverse nazionalità. La residenza che il regista ha scelto è fuori città, infatti è arrivato in macchina ma gli organizzatori temono gli incidenti, e gli affidano perciò una giovane autista. L’uomo si ribella, protesta, il tocco della ragazza con la macchina è però delicato, e infine l’accetta.

Nel percorso ripete, legge il testo di Cecov, le ascolta da un nastro dette dalla voce della moglie. E intanto nelle lunghe ore in cui chiede ai suoi attori di leggere e rileggere il testo, evitando di cadere nell’interpretazione sembra perderlo di vista: riuscirà a ritrovarne il senso grazie a un’attrice muta, che recita con la lingua dei gesti coreana il ruolo di Sonia.

DOVE CI PORTA allora Hamaguchi, cosa racchiude quell’abitacolo nel quale, come su un palco, sembrano prendere forma la vita, il teatro o chissà? Disseminata di ricordi, di tracce, di zone oscure quella macchina è come se rispecchiasse l’anima del suo proprietario, un riflesso nel quale si inizia a sovrapporre la sensibilità della nuova guidatrice. Incontri, si diceva. Riflessi e rivelazioni: è un rischio muoversi su questi confini, allenarvi l’immagine, cercare di cogliere e senza presunzione l’epifania di un’emozione.

Hamaguchi ancora una volta vi riesce con la semplicità raffinatissima della sua messinscena. Da Hiroshima ci spostiamo a Hokkaido, nel nord, attraversando il Giappone in un viaggio che ce ne fa scoprire aspetti meno rappresentati: ma quel territorio non riflette anche i due personaggi, l’uomo e la ragazza, che infine mettono a nudo le loro ferite? I luoghi lasciati indietro, sepolti che però affiorano nel quotidiano, che devono trovare una «parola» per esistere e diventare memoria. È un processo lento, come l’andamento della macchina, che compie nella linearità apparente spesso dei detour, aprendo nuove piste inattese. Laddove il cinema trova quella sua potente dolcezza che ancora sa commuoverci.