La guerra in Afghanistan attraverso le parole di chi l’ha vissuta e di chi, portando su di sé i segni di quell’esperienza, ha cambiato radicalmente percorso di vita. L’ex soldato americano, oggi poetessa e professoressa Drew Pham è stata protagonista di un incontro organizzato dal Dipartimento di Comunicazione dell’università americana a Roma John Cabot nell’ambito del ciclo Digital Delights & Disturbances. Le opportunità e le nefandezze insite nel digitale sono al centro di questo progetto – viene giustamente fatto notare come anche la guerra sia legata al linguaggio binario, tanto nell’operatività quanto nella passiva fruizione delle notizie sugli schermi – ed infatti è su zoom che si è svolto il meeting, al crocevia tra una conferenza e una lettura poetica. Seguendo la teoria di Bachtin sulla polifonia Pham ha impersonato una molteplicità di voci, tutte frammentariamente legate alla realtà emotivamente vissuta della guerra. «Scrivere per me è un modo di provare a spostare lo sguardo, per imparare a riconoscere l’altro» ha raccontato Pham, a cui abbiamo posto qualche domanda sul suo passato e sul suo presente.

Cosa ha pensato quando ha visto le immagini provenienti dall’aeroporto di Kabul?
Pensavo di aver fatto pace con quella parte del mio passato, vedere le immagini invece è stato molto doloroso. Ero arrabbiata con il governo per aver inflitto tutta quella violenza e con le persone intorno a cui non importava nulla dell’Afghanistan. Gli Stati Uniti si trovano in una violenta crisi d’identità, devono capire che il mondo non è fatto solo di bianchi americani così da poter riconoscere gli altri esseri umani, affrontando realmente le radici razziste di questo Paese. Non bastano le leggi, bisogna sviluppare un lato emotivo e cogliere il fatto che il potere è una gabbia, altrimenti sarà inutile. Peraltro è stato sotto Obama, un Presidente democratico, che abbiamo avuto il più alto numero di combattimenti, di morti e di feriti in Afghanistan.

Come ha vissuto il ritorno alla vita civile?
Quando sono tornata a casa ero estremamente disillusa, non riuscivo a credere che ci fosse così poca considerazione per il fatto che eravamo mandati a commettere tutti quegli omicidi di civili. Io stavo malissimo eppure venivo considerata un eroe per aver ucciso un nemico in battaglia, questo mi disgustava. Porto la memoria di quell’uomo ovunque, anche se le nostre visioni del mondo potevano differire, voleva solo difendere la sua terra. La guerra non finisce con i trattati, ci sono tutta una serie di ripercussioni che proseguono nel tempo. È lo stesso che è accaduto ai miei genitori in Vietnam, mio padre ha lasciato il Paese quando Saigon è caduta, i suoi traumi non curati hanno sviluppato una spirale di violenza che ha inghiottito me e la mia famiglia. A causa di queste ferite per molti anni non sono riuscita a fare coming out, solo quando ho intrapreso la mia nuova carriera ho fatto il passo, iniziando a guarire.

Come è avvenuto l’approdo alla scrittura?
Sin da piccola ho sentito l’impulso a scrivere storie, non tanto come evasione ma come luogo dove poter crescere e fiorire. È stato poi il modo di dare espressione alla mia identità sessuale queer e di ritrovarmi rispetto ad un linguaggio che non mi apparteneva, quello del genere maschile assegnatomi alla nascita. Il libro a cui sto lavorando sarà composto di piccole storie, si concentrerà sullo sguardo che abbiamo l’uno verso l’altro e parlerà di amore, ma di come l’amore può divenire inafferrabile quando i traumi sono troppo forti e non vengono affrontati, di come la violenza tende a ripetere se stessa.