Il ciclo di lezioni Mal faire, vrai dire, tenuto da Michel Foucault alla Scuola di Criminologia dell’Università cattolica di Lovanio nella primavera del 1981, esce in italiano per Einaudi in questi stessi giorni in cui in Francia viene pubblicato il testo di La societé punitive, corso del 1972-73 che rappresenta il penultimo tassello dell’edizione completa delle sue lezioni al Collège de France. Dal 1997, anno nel quale venne dato alle stampe il corso Bisogna difendere la società (1975-76), c’è stata una apparizione cadenzata di dattiloscritti e sbobinature che hanno dato forma quasi a un’opera parallela, persino più discussa di quella pubblicata in vita.

La continuità della ricerca esposta oralmente colma, in effetti, un vuoto di otto anni nella produzione di libri da parte di Foucault, una cesura che attraversa il progetto di Storia della sessualità dal primo volume del 1976, La volontà di sapere, ai successivi, La cura di sé e L’uso dei piaceri, apparsi entrambi nel 1984 poche settimane prima della morte. Inoltre, una serie intuizioni che in quegli anni erano comparse nei suoi testi in modo appena embrionale trovano nei corsi, invece, sviluppi più circostanziati, dettagliati, e non prendendo la forma compiuta del libro finiscono per produrre aperture molto feconde e scongiurano il rischio di ridurre il pensiero di Foucault a una serie di formule già codificate.

Le lezioni di Lovanio, il cui titolo tradotto in modo tanto fiscale quanto infelice suona Mal fare, dir vero (Einaudi, a cura di Fabienne Brion, Bernard E. Harcourt, traduzione di Valeria Zini, pp. XVI-352, euro 25,00) sono oltretutto particolarmente preziose perché si accostano direttamente al tema del libro che Foucault ha lasciato incompiuto, Le confessioni della carne, ultimo volume della Storia della sessualità del cui effettivo stato di elaborazione si parla solo a bassa voce tra chi ha avuto l’opportunità di sfogliare un dattiloscritto non consultabile nemmeno negli archivi.

A Lovanio, rivolgendosi all’uditorio di una facoltà di Giurisprudenza, Foucault si concentra sulla Funzione della confessione nella giustizia, come recita il sottotitolo del seminario, e compie un percorso che nell’arco di sei lezioni va dall’ambito del diritto o del pre-diritto greco al mondo medievale e cristiano per poi giungere a temi che riguardano più da vicino l’epoca moderna e contemporanea. A partire da questo svolgimento ben circoscritto, al quale era stato sollecitato da giuristi allora impegnati nella lotta per la riforma della dottrina penale in Belgio, Foucault risale però verso il progetto filosofico più generale da cui erano scaturite tutte le sue riflessioni sulla «veridizione», cioè sull’atto di dire la verità: «il Wahrsagen, come avrebbe detto Nietzsche», autore che torna ad affacciarsi in modo più o meno esplicito in questa genealogia della confessione.

Fin dalla conferenza inaugurale, cui fanno seguito sei lezioni ricostruite da manoscritti e dal materiale audiovisivo registrato in aula, Foucault chiarisce che il lato giuridico rappresenta solo uno scorcio di una questione filosofica più ampia: «se si dà il nome di filosofia critica a una filosofia che parta non dallo stupore per il fatto che ci sia dell’essere, ma dalla sorpresa per il fatto che ci sia della verità, si può vedere allora che esistono due forme di filosofia critica. Da una parte c’è quella che si domanda a quali condizioni possono esistere enunciati veri – condizioni formali o condizioni trascendentali. Dall’altra c’è quella che si interroga sulle differenti forme del dir vero».

Lo studio della confessione appartiene a questo secondo progetto di filosofia critica. Non è un’analisi di tipo formale o strutturale, ma potrebbe essere definita come una «etnologia del dir vero» che Foucault affronta mettendo in luce a tutti i livelli, giuridici e non giuridici, le procedure rituali che stabiliscono in quali termini deve apparire l’alethes, ciò che è vero. Tema della ricerca di Foucault non è perciò né il contenuto di verità degli enunciati, né l’atto linguistico in cui una verità prende forma e si esprime. A interessarlo sono semmai le «liturgie del vero», le «aleturgie», i contesti pragmatici e rituali, «drammaturgici» che governano la produzione e la manifestazione della verità. Foucault avrebbe ribadito la differenza tra epistemologia e studio della veridizione proprio all’inizio del suo ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della verità, spostando il raggio d’osservazione dal campo giuridico a quello etico-politico.

Nel seminario di Lovanio, però, il problema della confessione viene affrontato in maniera molto più estesa e considerato, in generale, come un punto di snodo che impegna il soggetto a compiere un percorso di trasformazione pubblico, ritualizzato in base a procedure che riguardano in maniera esemplare, ma non esclusiva, il terreno giuridico su cui si concentra l’esposizione. La confessione, osserva infatti Foucault, è sempre onerosa. Comporta un «costo di enunciazione» che consiste nel mettersi allo scoperto e che si paga infrangendo le attitudini della reticenza, del rifiuto, del segreto, insomma di tutto quel che concerne la barriera del «non dire». La confessione lega inoltre l’individuo a ciò che egli afferma di se stesso e lo colloca in una relazione di potere speciale, che senza la confessione non esisterebbe e che consiste nel porsi letteralmente alla mercé degli altri. Tramite la confessione si può diventare dipendenti di un medico, di un giudice, di un confessore, di un amico, di un gruppo con il quale si è in rapporto, della persona che si ama.

Ciò che emerge in modo altamente ritualizzato in ambito giudiziario e religioso, infatti, si rispecchia anche in contesti molto più vaghi e spiccioli della vita quotidana: «perché la dichiarazione “ti amo” sia una confessione», ad esempio, «è necessario che l’altro possa accettare, rifiutare, scoppiare a ridere, dare un ceffone, oppure dire “ne parlerò a mio marito”», potendo far leva su una nuova posizione di forza che deriva proprio da quanto si è rivelato di se stessi.
La confessione, dunque, è una pratica sociale che Foucault vede insediata nel cuore delle società occidentali e di cui il caso esemplare costituito dalla giustizia permette di ricostruire alcuni passaggi fondamentali. A partire dal mondo delle istituzioni giuridiche antiche, analizzate sulla scorta degli studi di Louis Gernet, il momento fondamentale nella storia della confessione è costituito dal Cristianesimo, religione che più di ogni altra ha legato l’individuo all’obbligo di dire il vero su di sé e che ha riportato questo imperativo anche nell’ambito giuridico, facendo della confessione il perno dell’indagine e della prova.

La tortura, osserva Foucault, diviene allora il modo prevalente con il quale si cerca di ottenere dall’accusato una confessione e quasi il simbolo araldico dell’Inquisizione, che agisce in fondo molto coerentemente con quell’obbligo fondamentale di verità. Ma se il valore probatorio di una dichiarazione estorta poteva essere messo in discussione anche all’epoca dell’Inquisizione, la ritualità della confessione conteneva qualcosa di meno scalfibile che in età moderna, a partire dalle teorie del contrattualismo, sarebbe stato spesso messo in gioco.
Attraverso la confessione, infatti, prima ancora di riconoscersi colpevole, l’accusato accetta di sottoporsi al meccanismo del processo e della condanna, mostra cioè di condivere la stessa legge e gli stessi criteri che sono alla base del diritto di punire, torna a sottoscrivere il vincolo del patto sociale che lo unisce a tutti gli altri solo per definirsi, però, come un criminale, piegandosi alle regole del vivere comune per meglio legittimare la sua esclusione.

Isolando pochi tratti specifici del problema che affronta Foucault riesce ad analizzare minutamente alcuni episodi e poi a passare con agilità da un’epoca all’altra, com’era solito fare a lezione, ma così fornendo un’idea più precisa del suo interesse per il mondo antico.