Non sono pochi gli autori che una volta raggiunti fama e successo hanno incoraggiato la diffusione in dvd del loro primo film (lungometraggio o cortometraggio, fiction o documentario) girato spesso a livello amatoriale e senza un budget e in alcuni casi sparito e poi ritrovato. Non si può dire lo stesso per Paolo Sorrentino a proposito del suo Dragoncelli di fuoco, opera prima del 1994, un mediometraggio indipendente di 55 minuti. Non solo l’autore de La grande bellezza non si è preoccupato di farlo conoscere ai suoi numerosi fans e non solo, ma il film è stato e continua ad essere praticamente invisibile ed è quasi occultato visto che ne esiste una copia in VHS custodita da qualcuno dei suoi amici e collaboratori dell’epoca, nonostante la sceneggiatura sia stata riscritta completamente e migliorata al punto da vincere il Premio Solinas nel 1997. Tutto questo viene ricostruito in un pregevole volumetto intitolato Dragoncelli di fuoco sottotitolo Il primo (non) film di Paolo Sorrentino pubblicato per le Edizioni Bietti (2020, pagg. 138, euro 4,99) per la collana «Fotogrammi».

L’autore, il saggista e scrittore udinese Stefano Loparco torna nella Napoli degli anni Novanta e, grazie ai ricordi di Bruno Grillo, Giacomo Matturro, Maurizio Fiume, Stefano Russo, Pappi Corsicato e Gianni Ferreri, traccia un ritratto nudo e toccante del loro amico di gioventù, il futuro premio Oscar Paolo Sorrentino. In realtà Sorrentino è una scusa, perché in fondo è proprio lui il grande assente, la vicenda del film in questione diventa il pretesto per un piccolo romanzo di formazione, un romanzo biografico di gruppo. E Loparco traccia con dialoghi divertenti, espressioni dialettali, saliscendi di emozioni e sensazioni un incisivo ritratto generazionale. Quello di Paolo, Giacomo e Bruno, studenti universitari del Vomero, che sognano il cinema dove non c’è. Ma quando salta fuori una videocamera professionale decidono di farlo, il cinema, da soli. È la storia di un’amicizia e di una sfida vinta. Però resta la curiosità di conoscere Dragoncelli di fuoco, la commedia surreal-gastronomica ispirata a un’antica pietanza egizia che, secondo la maledizione, porterebbe chi li prepara alla morte entro la mezzanotte, della quale è protagonista lo chef di fama internazionale Palatone che invita nella sua villa alcuni tra i più influenti critici del momento per giudicare un piatto sorprendente. Nella sua introduzione Loparco spiega perché è un (non) film: «Film perché è un’opera finita pensata con i crismi del cinema maggiore. Non film perché non è mai stato presentato in commissione di censura, non è mai stato distribuito e non è mai stato visto».

Eppure dietro la facciata dello scanzonato trip generazionale, della paradigmatica avventura giovanile serpeggiano la rabbia di chi la voleva prolungare, l’impotenza difronte alla difficoltà di portare fino in fondo un ripescaggio emblematico, la delusione per non essere riusciti a condividere ancora un’esperienza esistenziale e artistica che in qualche modo ha segnato le vite dei protagonisti. Nella breve ma profonda prefazione scrive Bruno Grillo: «Io credo nell’amicizia. Perciò il rapporto con Paolo mi ha segnato positivamente ed è rimasto indelebile. Ho imparato a guardare al futuro con occhi pieni di speranza, curiosità e qualche dubbio. La complicità che sgorga dall’amicizia è inestimabile. Ho avuto la fortuna di aver incontrato Stefano che ha saputo attivare la memoria, facendomi tornare a un tempo lontano e bellissimo, fissandolo indelebilmente in queste pagine».