E’ arrivato il momento dell’addio. Dopo otto anni Mario Draghi lascia la carica di Presidente della Bce, “senza rimpianti” da parte sua. Nell’intervento pronunciato lo scorso 11 ottobre all’Università Cattolica di Milano, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in Economia, Draghi aveva, con molta compostezza, difeso la validità del suo percorso in un periodo economico e politico tutt’altro che facile, ispirandosi a tre principi di fondo: la conoscenza, il coraggio, l’umiltà. Doti essenziali per dei policy maker com’egli stesso a buon diritto si considera.

Come in altre occasioni si è potuto cogliere nelle sue parole un fondo di disincantata ironia.  Troppo grande ed evidente è la distanza tra quei principi, presi uno per uno e ancor più tutti insieme, e le pratiche delle classi dirigenti politiche ed economiche europee. Addirittura un abisso nel caso italiano.

Ma è proprio in questo contesto di un’Unione europea che ha creduto di affrontare la più grande crisi dopo il ’29 con la miserabili armi dell’austerità, che Draghi ha potuto assurgere a ruolo di salvatore dell’euro. In effetti il suo celebre Whatever it takes del 26 luglio del 2012 ha contribuito certamente a tenere a galla la moneta unica. Fu vera gloria? Non del tutto. Si può dire che Draghi abbia spinto i limiti del suo mandato, che sono quelli dello statuto della Bce e del sistema di governance che la Ue si è data, fino al loro limite estremo, senza però mai superarli.

Lo ha ripetuto anche in queste ultime ore. Non solo per difendersi dalle accuse dei falchi del rigore, ma perché egli stesso è ben cosciente dei limiti intrinseci di una politica monetaria non supportata da un’adeguata politica fiscale unitaria.

I lontani insegnamenti di Caffè, che lui ha abbandonato, qualche residuo positivo lo hanno pur lasciato nella sua formazione. Entro quei limiti Draghi ha mostrato grande attivismo ed inventiva. Ha varato quattro importanti pacchetti, cercando di fronteggiare le conseguenze di una crisi laddove le politiche economiche dei governi europei si mostravano più che inefficaci addirittura peggiorative.

Di suo non ha inventato nulla. La forward guidance, cioè le indicazioni prospettiche fornite ai mercati sulle mosse dell’autorità monetaria, è stata adottata per prime dalla Federal Reserve e dalla Bank of England. Il tabù dei tassi negativi, difesi da Draghi nella sua ultima conferenza stampa, è stato infranto prima da alcune banche centrali, come quella della Danimarca o della Svezia. Lo stesso Quantitative Easing è stato inaugurato dalla Federal Reserve addirittura nel 2008, mentre la Bce si è mossa solo nel marzo del 2015.

Il merito di Draghi però, malgrado le differenze statutarie tra la Banca americana e quella europea, è stato quello di implementare quelle politiche nella Ue superando contrasti, resistenze e vincendo anche battaglie legali, quale quella del riconoscimento da parte della Corte di giustizia europea della legittimità degli acquisti dei titoli di Stato, a condizione che l’obiettivo sia sempre quello del governo dell’inflazione.

Nel momento dell’addio però l’inflazione media annua prevista per il decennio si colloca all’1,20%. Lontani dal mitico 2%, l’obiettivo ideale dichiarato. Questo rafforza i dubbi sul bazooka imbracciato recentemente da Draghi e che la Lagarde dovrebbe raccogliere, Il Financial Times prevede che il nuovo QE senza scadenza potrà durare solo fino al 2020, data anche la scarsità di titoli che la Bce può acquistare, a meno che non si cambi la kapital key, che premia l’acquisto di titoli tedeschi e si privilegi quello dei titoli dei paesi periferici, abbassando lo spread.

Ma è prevedibile la teutonica resistenza e non è facile che la Lagarde riesca ad aggirarla, dato e non concesso che lo voglia. Tanto più che sarà già alle prese con la questione dell’Unità bancaria, che Draghi ha solo iniziato. I tassi negativi, che l’ultima riunione della Bce ha lasciato inalterati, malgrado la crescente pressione tedesca e olandese per alzarli, possono ben poco.

In ogni caso resta il problema di fondo, che anche Morgan Stanley ha evidenziato e cioè che “l’impulso monetario ha diminuito i suoi effetti”. Senza un’alternativa radicale nelle politiche economiche, una conversione ecologica dell’economia, un ruolo dell’investimento pubblico direttamente nell’economia reale, l’Unione europea è destinata a implodere e anche il calabrone euro potrebbe smettere di volare. Insomma il Re è nudo. Senza Draghi lo è ancora di più.