Sono passati più di tre anni dal famoso Whatever it takes di Mario Draghi del luglio 2012 che permise di salvare la moneta unica. Con quell’atto il Governatore cominciò a scrivere una nuova pagina nella storia della Bce, pur senza mettere mano agli statuti e ai Trattati.

Al punto che Otmar Issing, la vestale dell’ordoliberalismo tedesco, lo incolpò di interventismo politico. Effettivamente quell’intervento smorzò decisamente la tempesta che avrebbe potuto di lì a poco infliggere all’euro un colpo mortale.

Ma tutto questo non è servito a fare ripartire l’economia europea. Tanto è vero che di nuovo i mercati sono appesi alle decisioni che il board della Bce dovrà prendere nella prossima riunione. Le aspettative sono piuttosto elevate e c’è chi dice che Draghi potrebbe anche se non deluderle non soddisfarle completamente, vista la sua inclinazione ai colpi di scena. In effetti i poteri finanziari pretendono tre misure assai consistenti: un abbassamento di almeno 10 centesimi del tasso (già negativo) sui depositi presso la Bce; un incremento di una diecina di miliardi di euro o più sul limite (ora di 60 miliardi) di acquisto mensile dei titoli di stato; un prolungamento nel tempo del Quantitative Easing oltre il settembre 2016.

Come nel caso della prima, anche questa seconda potente immissione di liquidità non sarà affatto in grado di invertire le tendenze recessive di fondo dell’economia europea. La semplice attesa dei provvedimenti di Draghi ha già prodotto una notevole euforia in campo finanziario, anticipando quindi gli stimoli sperati dalla mossa della Bce. Nell’ultimo mese l’euro ha perso circa il 7% nel cambio con il dollaro. Una vera e propria svalutazione in grande stile – un toccasana per le esportazioni dell’Eurozona – rafforzata anche dall’attesa speculare e contraria di un innalzamento dei tassi da parte della Fed americana previsto per metà dicembre.

Oltre al ribasso nel cambio si è verificato un rafforzamento del mercato azionistico. Aveva ragione Warren Buffet, uno che se ne intende, a dire che più che i venti di guerra, cui la finanza si piega sempre volentieri, per ora contano di più le promesse di Draghi. In ogni caso l’effetto congiunto delle due cose ha spinto il paniere europeo Stoxx600 – indice del mercato azionistico – verso un nuovo massimo nell’ultima seduta di novembre. Lo spostamento di capitali sull’acquisto di azioni aumenterà l’accumulo di ricchezza, allargando le diseguaglianze. La direzione divergente fra le decisioni che dovrebbe assumere la Bce e quelle attese dalla Fed ha inciso anche sul differenziale fra i titoli più liquidi del mercato finanziario mondiale, i Tbond americani e i Bund tedeschi. Per avere questi ultimi si paga un premio che è giunto ai suoi massimi dal 2006, cioè da prima della crisi.

Intanto i tassi di rifinanziamento del debito pubblico sono in picchiata. Prima è toccato ai paesi più forti (Germania, Olanda, Francia). Ora è la volta anche dei titoli italiani, sotto le zero, almeno quelli dai 3 ai 12 mesi. Che vengono acquistati lo stesso. Basta che il loro rendimento non scenda sotto quello dei depositi presso la Bce. Buona notizia per lo Stato nella gestione dell’enorme debito pubblico, assai meno per i piccoli risparmiatori: potrebbero vedersi trasferire gli oneri dei tassi negativi delle banche.

L’incremento e il prolungamento dello stimolo monetario, se tiene in piedi l’euro, non rilancia l’economia reale. La trappola della liquidità non lascia scampo in assenza di politiche di conversione a un nuovo modello di sviluppo per far ripartire gli investimenti nei settori innovativi, per un nuovo tipo di domanda. Invece, in Europa si insiste sulla vecchia strada, come dimostra il recente documento dei cinque presidenti. Si pensa al rilancio della finanza privata – corresponsabile della più grave crisi del capitalismo europeo – anziché ad un buon impiego di quella pubblica, come testimonia il nuovo progetto dell’Unione dei mercati dei capitali.

Né la spirale guerra-terrorismo favorisce cambi di direzione e di passo. Al massimo può eccitare chi pensa che con la guerra si può dare impulso all’economia. E’ avvenuto con la Seconda guerra mondiale – e speriamo di non ripetere l’esperienza –, ma non certo, come ha osservato Paul Krugman, con le guerre mediorientali e orientali di questi anni. Cinismo idiota, dunque. Attendersi una inversione di tendenza dalla Conferenza sul clima in corso a Parigi in questo contesto è flebile ottimismo.

Intanto nel nostro paese si combatte sui decimali. L’Istat ci dice che l’economia italiana – quella reale – rallenta ancora e l’ottimismo di Renzi si ferma allo 0,8% di crescita. Del tutto trascurabile se si volesse per davvero aumentare l’occupazione. Abbiamo perduto un milione di posti di lavoro nella crisi. Altri sei milioni erano quelli che mancavano già prima per avvicinarci al tasso di occupazione dei paesi più industrializzati. E qui non c’è Draghi che tenga.