Sul treno di Matteo Renzi è salito un ospite inatteso, ma gradito: il presidente della Bce Mario Draghi. Ieri, dopo avere incassato l’annuncio che la Corte costituzionale tedesca ha rigettato i ricorsi dell’estrema destra dell’Afd contro il «quantitative easing», Draghi ha lodato il Jobs Act in quanto «esempio di riforma strutturale». Renzi ha incassato con piacere: «ha detto parole belle sul Jobs act italiano, lo ringrazio» ha detto in una tappa a Recanati.

«Al Jobs Act in Italia ha fatto seguito un incremento di quasi mezzo milione di occupati – ha detto Draghi in una conferenza stampa a Francoforte sulle riforme strutturali nell’Eurozona – in ampia misura grazie alle agevolazioni per le imprese che assumevano persone con i nuovi contratti a tempo indeterminato». L’assistenzialismo statale alle imprese, costato alle casse pubbliche 18 miliardi di euro in tre anni e finanziato anche dalla politica monetaria accomodante della Bce, rappresenta dunque un esempio da seguire.

Resta da capire cosa, in realtà, abbiano prodotto questi fondi. A dire dell’Istat, l’aumento degli occupati è pari a 417 mila: 350 mila sono a termine, 354 mila sono ultra-cinquantenni. Questo avveniva ad agosto 2017. Vediamo l’Inps: rispetto al saldo annualizzato, cioè la differenza tra assunzioni e cessazioni pari a oltre un milione di contratti di lavoro, a luglio 2017 i contatti di lavoro a tempo determinato e quelli stagionali erano 501 mila, la metà del saldo registrato nell’ultimo anno. Il maggiore contributo alla crescita dei contratti (+823 mila rispetto al 2016) è stata quella del tempo determinato (+25,9%) e dell’apprendistato (+25,9%), mentre l’occupazione a tempo indeterminato cala (-4,6%, in gran parte part-time, rispetto al 2016). L’aumento dell’«occupazione» è dovuto alla «riforma» Poletti dei contratti a termine: l’85% è a breve e brevissimo termine. Più che lodare le «riforme», qualsiasi esse siano, Draghi dovrebbe essere preoccupato. Ci penserà fino alla prossima tappa del treno di Renzi.