«Devo ringraziare questo parlamento per l’impulso politico che anima tutto il piano». Quasi alla fine dei suoi 43 minuti di presentazione del piano nazionale di ripresa e resilienza nell’aula della camera, il presidente del Consiglio ricorda di rendere omaggio all’istituzione che lo accoglie. Si solleva un brusio. Fino a quel momento l’aula, piena a metà, aveva ascoltato in un silenzio quasi distaccato. O distratto. Ma il ringraziamento di Mario Draghi è tanto dovuto quanto urticante per un parlamento che sa bene di aver maneggiato solo l’involucro del piano. Appena qualche titolo, qualche auspicio, senza però poter incidere nella sostanza. E Draghi in qualche modo lo dice: «L’attenzione ad ambiente, giovani, donne, mezzogiorno è prima di tutto frutto della vostra azione», cari deputati. Congratulazioni. Se non era per loro, ci pensate, il piano lo avrebbero scritto tutto per i maschi anziani inquinanti del nord.

Non c’è da dubitare troppo. Per apprezzare il peso del parlamento nel piano basta mettere in fila i passaggi degli ultimi mesi. Anche senza credere al racconto delle ultime ore, quelle in cui Draghi da solo al telefono chiude l’accordo con Bruxelles. Camera e senato hanno lavorato a lungo – facendo audizioni approvando relazioni – sul vecchio testo del piano, quello presentato da Conte. In precedenza (a ottobre) la camera aveva approvato una relazione in cui definiva «indispensabile» che «la camere siano coinvolte nell’intero iter della predisposizione del Pnrr». E il governo si era impegnato al «coinvolgimento di tutto l’arco parlamentare». Anche il senato aveva ottenuto dal governo l’impegno che «le camere siano parte attiva, coinvolte in modo vincolante, nella fase di individuazione e scelta dei progetti». E infine, di nuovo il senato, il 31 marzo scorso aveva «ribadito l’esigenza di un successivo passaggio parlamentare che riguardi la versione definitiva del piano, evidenziando quali indicazioni del parlamento siano state recepite dal governo».

Ed eccoci al passaggio parlamentare, 72 ore prima che il piano sia consegnato in Europa. Draghi alle 16.00 riassume il contenuto di un testo di 270 pagine, arrivato in parlamento – notano con puntiglio gli uffici parlamentari – alle 13.57 in senato e alle 14.00 alla camera. Sarà approvato oggi con il sì della maggioranza a una risoluzione alla quale i capigruppo hanno lavorato ieri con il ministro D’Incà. La richiesta di «pieno coinvolgimento» del parlamento, a questo punto, sarà spostata sulla fase di attuazione del piano. Probabile che si tornerà a chiedere quelle «relazioni quadrimestrali» che erano già previste nei precedenti pareri, ma di cui non c’è traccia nelle 270 pagine. Lì dove non è possibile nemmeno rintracciare le indicazioni del parlamento accolte dal governo. Per cui bisogna accontentarsi delle parole di Draghi, quelle sul parlamento come primo, vero, ispiratore. E crederci.

Il Piano è sul banco di tutti i deputati. Copertina in due sfumature di azzurro, si presenta con un titolo di non eccezionale fantasia, «Italia domani», e un logo troppo simile a quello della non gloriosa lista Dini. Draghi non ci gira troppo intorno: è l’ultima, l’unica chance. «Nell’insieme dei programmi che oggi presento alla vostra attenzione c’è anche e soprattutto il destino del paese», dice all’inizio. E poi aggiunge: «Ritardi, inefficienze peseranno sulle vite dei cittadini più deboli e sui nostri figli e nipoti e, forse, non vi sarà più il tempo per porvi rimedio». Dopo il conteggio delle somme che potranno essere impegnate – 248 miliardi – e qualche percentuale – 40% ai progetti verdi, 27% al digitale, 40% al mezzogiorno, ben 90 miliardi affidati alla responsabilità di regioni ed enti locali (ma ci sarà la “cabina di regia” a palazzo Chigi per sostituire chi non regge il passo) – il presidente del Consiglio conclude con un tentativo di ottimismo: «Sono certo che riusciremo ad attuare questo piano, sono certo che l’onestà, l’intelligenza e il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti».

La delega del parlamento è totale. La «governance», anzi «quella che altri chiamano governance» come dice Draghi ai deputati, ricordandosi di aver criticato l’eccesso di anglismi proprio dalla stessa tribuna, è la più verticale che si può. Sul vertice stanno seduti lui stesso e il ministro che ha voluto al suo fianco, l’ex ragioniere generale Daniele Franco. Ai partiti non resta che inseguirsi nelle dichiarazioni che rivendicano questo o quel successo, di nuovo il sud, le donne, i giovani… A protestare sono invece i segretari di Cgil, Cisl e Uil. Scrivono a Draghi perché nel piano «non sono definiti e garantiti livelli di negoziazione e di confronto». Non pare una dimenticanza.