Mario Draghi prepara il bazooka, non spara ancora, ma tira fuori l’arma dall’armadio per averla a portata di mano. A marzo “al prossimo vertice” della Bce, avverte, sarà necessario “rivalutare e senza dubbio rivedere la politica monetaria”, allentando di nuovo i cordoni della borsa. L’economia europea annaspa, in un contesto mondiale pieno di rischi: con “l’inizio del nuovo anno – ha detto ieri il presidente della Bce, facendo eco alle preoccupazione espresse a Davos – i rischi al ribasso (dell’inflazione) sono aumentati in un contesto di incertezza”, rafforzato dalla prospettiva di crisi delle economie emergenti, dalla volatilità dei mercati finanziari e delle materie prime e per “rischi geopolitici”, con la guerra alle porte (con la sola eccezione della schiarita sul fronte dell’Iran). Ma Draghi vuole rassicurare: “la Bce non capitola”. Il presidente smentisce anche divergenze all’interno del consiglio dei governatori, dove tutti sarebbero “uniti” per “dispiegare senza esitazione tutti gli strumenti necessari” e lottare contro il calo dell’inflazione – allo 0,2% nella zona euro, “una traiettoria attesa per il 2016 sostanzialmente inferiore alle prospettive di inizio dicembre”, ben lontana dall’obiettivo del 2%. L’anticipazione dell’inflazione è a livelli pari a quelli di prima dell’operazione di Quantitative easing. Draghi ha anche annunciato altri sei mesi, almeno, di acquisto di titoli di stato, che dovrebbero essere maggiori delle emissioni di debito pubblico. Le Borse hanno reagito positivamente all’intervento di Draghi, dopo il crollo di mercoledi’. Ma il prezzo del petrolio continua a scendere ed è ormai sui 28 dollari il barile, cioè più di un terzo inferiore alle previsioni della Bce di dicembre. Un litro di petrolio costa ormai 15 volte meno di un litro di birra e diventa un ostacolo al commercio mondiale, annullando i vantaggi che i paesi industrializzati avevano avuto dal precedente ribasso.

In poco tempo, l’economia mondiale è passata dall’ “allineamento dei pianeti” che avrebbe dovuto favorire la ripresa in Europa (tassi di interesse bassi, prezzo ragionevole del petrolio, euro in calo sul dollaro) a un cocktail esplosivo: inquietudini sull’economia statunitense e incertezze sul rialzo dei tassi da parte della Fed, ma soprattutto dubbi crescenti sulla Cina, scivolone continuo dei prezzi del petrolio, emergenti già in recessione (Brasile, Russia) o sull’orlo. La Banca Mondiale e l’Fmi hanno abbassato le prospettive di crescita mondiale, a +3,4% quest’anno e +3,6% nel 2017. La crisi politica che sta attraversando l’Unione europea, tra chiusure progressive delle frontiere e crescita delle reazioni nazionaliste come sola risposta al dramma dei rifugiati, il sud che si allontana dal nord e l’est dall’ovest, mentre si avvicina la minaccia di un Brexit, costituiscono una tela di fondo che aggiunge incertezza a un quadro economico mondiale sempre più inquietante.

Draghi ha cercato di rassicurare sulla Cina, parlando di “decelerazione progressiva conforme alle anticipazioni della Bce”. Ma la Cina, con una crescita al di sotto del 7% per la prima volta negli ultimi 25 anni, sembra non avere la capacità di stimolare la domanda attraverso il credito, che si restringe.

Dietro queste cifre, ci sono milioni di vite umane sconquassate dalla crisi economica. La debolezza delle prospettiva di crescita si tradurrà in un aumento generalizzato della disoccupazione. L’ultimo Rapporto dell’Oit è allarmante: quest’anno, ci saranno più di 200 milioni di disoccupati negli 186 paesi membri dell’Organizzazione internazionale del lavoro, 30 milioni in più di prima della crisi del 2007. Inoltre, il contesto di crisi favorisce l’esplosione del precariato nel mondo: secondo l’Oit, riguarda oggi 1,5 miliardi di lavoratori, cioè più del 46% degli attivi. Tassi del 70% in Africa o nell’Asia del sud e percentuali elevate anche nei paesi avanzati, con i tagli nei bilancio, che dopo il Nord stanno ora colpendo anche il Sud del mondo, che non faranno che aggravare le condizioni del lavoro. Di fronte a questa situazione, non ci sono risposte. La Ue non reagisce e persino il modestissimo “piano Juncker” di 315 miliardi arranca.

Ai margini dell’intervento di Draghi, c’è stato anche un riferimento alla crisi bancaria italiana. Draghi si vuole rassicurante: “non c’è niente di nuovo – ha detto – è stato inoltrato un questionario a diverse banche europee per capire come gestiscono i crediti e le sofferenze, ma non ci sono richieste di maggiori accantonamenti o capitali” (l’Italia è “in linea” con i livelli europei). Per le “sofferenze” delle banche italiane, superiori ai 200 miliardi, ci vorrà comunque “molto tempo” per risolvere il problema dei crediti.