Con dichiarazioni di apparente buon senso, a Parigi Macron e Draghi hanno invitato ieri i libici ad andare a elezioni il 24 dicembre. Minacciano pure sanzioni a chi si oppone. Ma dove erano Italia e Francia quando nel novembre 2019 il generale Khalifa Haftar stava per conquistare Tripoli e venne poi fermato dall’intervento della Turchia su richiesta di Sarraj?

Haftar stava prendendosi la Libia con la forza e il sangue e noi siamo stati zitti a guardare, altro che elezioni. L’Italia si rifiutò con Usa e Gran Bretagna di aiutare Sarraj, ovvero il governo riconosciuto dall’Onu, mentre la Francia, con Russia, Emirati ed Egitto, sosteneva Haftar. Cosa che Parigi fa ancora oggi mostrando in pubblico una facciata di finta neutralità che non inganna nessuno, tanto meno i libici. È tutto da dimostrare che la Turchia in Tripolitania e la Russia in Cirenaica siano disposte ad accettare l’esito di elezioni, che li costringerebbe a lasciare la Libia: oltre tutto quando in corsa per le presidenziali c’è un personaggio controverso e inaffidabile come Haftar. Elezioni affrettate e poco trasparenti rischiano di dividere ancora di più il Paese.

Ma di che parla questa formidabile coppia sulla scena libica al limite dell’ipocrisia? Il nostro presidente del consiglio pensa che la Libia sia il Draghistan, dove la «fiera popolazione locale» deve accodarsi al suo verbo pieno di buon senso. Ma nel contesto libico la sua pacata ragionevolezza si ammanta di toni neo-coloniali ambiziosi e fuori tempo massimo. Nella conferenza stampa conclusiva di Parigi, ha raggiunto vette degne di una parodia del Crozza. «I libici – ha dichiarato con fare paternalistico – devono fare subito una legge elettorale, nel giro di pochi giorni, non di settimane». Ma lo sa Draghi che dopo anni neppure l’Italia ha ancora una legge elettorale? Bacchetta i libici senza capire quel che accade in casa nostra.

Anzi fa finta di non capire, che è pure peggio. Cosa può accadere dalle parti della Libia se lo può far raccontare da Conte e Di Maio che nel dicembre 2020 sono andati a Bengasi per portarsi a casa i pescatori di Mazara del Vallo. Ai nostri governanti piace prendere delle veloci abbronzature libiche, per tornare a casa così soddisfatti che pensano di avere compreso ogni cosa della nostra ex colonia. Ma i libici sanno benissimo che qui non ci sono più i Moro, gli Andreotti e addirittura i Craxi che salvavano la pelle a Gheddafi dai complotti britannici e dai bombardamenti americani. Ce lo ricorda un documentario Rai che va in onda la prossima settimana, “C’era un volta Gheddafi”, dove il generale dei servizi Jucci queste cose le ha fatte e le racconta per filo e per segno.

I libici guardano i governi italiani di questo nuovo millennio come i vassalli della Nato e della Ue, da corteggiare soltanto per controbilanciare la presenza dei turchi in Tripolitania, dei russi in Cirenaica e ammansire le pretese della Francia. È doveroso ricordare a Draghi che in Libia l’Italia ha subito la peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale, dopo che il 30 agosto 2010 avevamo ricevuto Gheddafi a Roma in pompa magna. Con i raid francesi, inglesi e americani del 2011, diventati poi Nato, l’Italia perse allora 55 miliardi di euro di commesse e giro d’affari con Tripoli. Tanto per avere un’idea l’ultima finanziaria di Draghi è di soli 23 miliardi, molto meno della metà di quella cifra.

Ma peggio ancora fu quando il nostro Paese, spinto dal presidente Napolitano e nel vuoto pneumatico di iniziativa del governo Berlusconi, si adeguò ai ricatti dei nostri alleati per aderire ai bombardamenti sulla Libia sotto l’egida dell’Alleanza Atlantica. Adesso, nel mezzo della lotteria per sostituire Mattarella, sembra che Draghi sia il più accreditato: cosa farà se dovesse salire al Quirinale e i libici non andassero alle urne come lui desidera, muniti di una nuova legge elettorale e magari pure di green pass? Li bombarda? Ne dubitiamo: al massimo faremmo un’altra figuraccia magari da spartire con il biforcuto Macron. Con lui siamo d’accordo, con tante belle parole sui «diritti umani da rispettare”» soprattutto su un punto: appaltare la questione dei migranti a quella banda di criminali della guardia costiera libica che l’Italia continua a finanziare.

A proposito di diritti umani, a Parigi c’era l’adulato generale Al-Sisi. Ci sono domande che in questo Paese dei balocchi nessuno si fa mai, neppure guardando al recente passato quando colpendo Gheddafi, il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, l’Italia perse ogni credibilità sulla Sponda Sud. Fortunatamente il democristiano Mattarella è appena andato in visita di Stato in Algeria, rimasto l’unico nostro Paese amico nel Nordafrica, per tentare di restituire un po’ di smalto a una politica estera assai opaca e priva di qualunque seria autonomia rispetto all’atlantismo e al manuale di Bruxelles.

Alla conferenza parigina sulla Libia, presieduta congiuntamente da Macron, Draghi, Merkel e dal premier libico Dbeibah, non era presente Erdogan. Un vero peccato perché questa era una bella occasione per una rimpatriata tra amici. Macron e lui si sono dati reciprocamente dei dementi, Draghi (che però lo ha visto al G-20 di Roma) lo aveva definito un «dittatore che ci torna utile». In questo vertice libico anche il Sultano atlantico si sarebbe fatto qualche bella risata, soprattutto quando sul ritiro delle milizie straniere dalla Libia la diplomazia italiana ha messo a segno un colpo magistrale sostituendo nel documento finale la richiesta di partenza «immediata» con la dicitura «rapida». È cosi che si lavora…