Nella prefazione al Rapporto Annuale Bce 2015, già superato dal quadro macroeconomico dei primi mesi di quest’anno, Mario Draghi è tornato a parlare di «forze deflazionistiche» che concorrerebbero a tenere bassa l’inflazione in Europa. Un modo per giustificare gli effetti modesti della politica monetaria non convenzionale adottata da Eurotower a partire da marzo 2015.

A dire il vero, più che di effetti modesti del programma di Quantitative easing, sarebbe il caso di parlare di un suo sostanziale fallimento, stante il ritorno, a febbraio, del segno meno davanti all’indice dei prezzi nella zona euro, dopo nove mesi in cui si era registrata una timida inversione di tendenza. Ma tant’è. Draghi sembra esserne consapevole, ma se la cava dichiarando che senza il fiume di denaro immesso finora nel sistema, l’inflazione sarebbe caduta a valori ancora più bassi. E, paventando nuovi shock per l’economia dell’euro-sistema, rivendica con orgoglio la recente scelta di ampliare il programma di acquisti (Paa), includendovi anche titoli societari, e di lanciare nuove operazioni di rifinanziamento agevolato per le banche. Un insieme di misure da leggersi, per l’appunto, come reazione della Bce alle forze «disinflazionistiche» che agirebbero «su scala mondiale», in un clima giudicato di «grande incertezza».

Non spiega però quali sarebbero queste «diverse forze» che, insieme, contribuirebbero a tenere bassa l’inflazione, né come le stesse determinerebbero questo risultato. Magari si tratta, molto più banalmente, di “fattori economici”? Ma allora, perché parlare di «forze» di fronte alle quali la Bce «non intende piegarsi»? Basterebbe elencare in maniera dettagliata i fattori congiunturali portatori di effetti deflattivi ed indicare dei rimedi concreti.

Quando agli inizi di febbraio Draghi parlò per la prima volta di «forze che concorrono per tenere bassa l’inflazione», in molti lessero nelle sue parole l’evocazione di una congiura, forse per un’errata traduzione del verbo to conspire, che in inglese significa innanzitutto “cospirare”, ma anche “contribuire”. A meno che, lo stesso Draghi non abbia consapevolmente giocato con il significato di questa voce, per drammatizzare la sua lettura dei fatti e coprire meglio il fallimento delle sue scelte di politica monetaria.
Invero, di fronte a quelle conclusioni, si è pensato immediatamente alle quotazione del petrolio, che nel mese precedente era arrivato a scendere fin sotto i 28 dollari al barile, il prezzo più basso dal 2003. Oggi, però, tra rialzi e ricadute, il prezzo del greggio viaggia tra i 35 ed i 40 dollari al barile e sono in molti a scommettere su un suo attestarsi presto intorno ai 50. Ma poi, quand’anche si registrasse ancora una tendenza al ribasso delle quotazioni del greggio, davvero possiamo pensare che l’attuale andamento dei prezzi al consumo in Europa dipenda soprattutto da una variabile come quella del petrolio e di altre materie prime non petrolifere, come peraltro, nel corpo del Rapporto, si lascia ancora intendere? E la domanda dove la mettiamo?

Non sarebbe più ragionevole individuare una delle cause principali della deflazione nel fatto che la spesa pubblica e quella privata, che gli investimenti pubblici e privati, sono inadeguati di fronte al quadro macroeconomico che abbiamo davanti? D’altro canto era stata la stessa Bce, un paio d’anni fa, a far notare, con preoccupazione, che nella zona euro gli investimenti erano crollati del 15% a partire dal 2008.

A Draghi andrebbe fatta una domanda molto semplice: perché mai un’impresa dovrebbe investire, contrarre nuovi debiti, se prevede che non ci sarà domanda per i beni ed i servizi che andrà a produrre? Forse sarebbe il caso di individuare le principali «forze deflazionistiche» nei cittadini che hanno visto calare notevolmente i propri redditi in questi anni e in una disoccupazione ancora troppo elevata, soprattutto nei paesi periferici. Ma le forze che governano l’Unione sono disponibili ad ammettere che finora hanno sbagliato (quasi) tutto? Stando al documento della Bce, sembra proprio di no. «Per evitare una generazione perduta dobbiamo agire velocemente», scrive Draghi nel suo editoriale, riferendosi alla piaga della disoccupazione giovanile. Ma cosa intende per «agire velocemente»? I governi nazionali continuino sulla strada delle «riforme strutturali», del risanamento e della spending review. Ancora l’idea dell’«austerità espansiva», insomma.

Ne sa qualcosa il governo italiano, tenuto sotto pressione in questi giorni per i suoi impegni sul versante dei conti pubblici. Un tira e molla con Bruxelles sulla cosiddetta flessibilità, proprio quando le previsioni del Def 2016 parlano di una crescita per l’anno in corso al di sotto delle aspettative contenute nei precedenti documenti di economia e finanza, con implicazioni evidenti sulla sostenibilità del debito, già oltre il 132% del Pil. In concreto, parliamo di uno sconto sul deficit dello 0,7% per il 2017 (1,8%), ma in cambio di un corposo programma di privatizzazioni, per scongiurare la clausola automatica sull’Iva e il rischio di una nuova procedura di infrazione. Per quest’anno, anziché al 2,2%, come da nota di aggiornamento al Def 2015, si prevede di chiudere al 2,4%, ma con l’impegno di rimediare subito dopo le cosiddette “raccomandazioni di primavera” della Ue con una piccola manovra di aggiustamento (3-4 miliardi).