Tra inflazione, residui di pandemia e tensioni geopolitiche, il tema dell’attuazione del «Piano di ripresa e resilienza» è finito in coda al dibattito politico nazionale. Eppure, quest’anno è un anno cruciale per l’ottenimento di questi fondi. Nel 2021 abbiamo ottenuto la prima rata di 25 miliardi di euro. Una sorta di anticipazione per l’avvio delle attività previste. Ora, però, sono in ballo ben 40 miliardi di euro, che corrispondono alla seconda ed alla terza rata del finanziamento. Il trasferimento di queste risorse, nondimeno, è condizionato dal conseguimento di alcuni obiettivi operativi e dall’approvazione di una serie di «riforme di contesto». Parliamo di 102 obiettivi e di ben 66 riforme. Che si aggiungerebbero ai 51 obiettivi «centrati» nell’anno precedente. Cinquantuno obiettivi, ma di cosa parliamo? Leggi delega, decreti e «piani nazionali» per disabilità e fragilità sociali, lavoro, salute, giustizia, ambiente e mobilità sostenibile, università e ricerca, bilancio pubblico, mondo produttivo, turismo.

Una pioggia di riforme e di interventi. Ma ispirati a quale visione della società? La politica è del tutto indifferente a questo tema. Più mercato e competizione o più solidarietà ed inclusione? Più privato o più pubblico? Lo Stato deve intervenire passivamente o attivamente nella sfera economica? I partiti si azzuffano su tutto, tranne che sulla ratio degli interventi che dovrebbero cambiare le relazioni economiche e gli assetti istituzionali del Paese. Riforme e spesa dei fondi del Pnrr vanno avanti col «pilota automatico», le forze politiche pensano alle prossime elezioni. Ma le riforme, soprattutto quelle economiche, non hanno niente di «oggettivo». Sono scelte politiche, possono fare pendere da un lato o dall’altro la bilancia degli interessi sociali. Scelte di classe, si sarebbe detto un tempo.

D’altro canto, la governance del Pnrr è stata pensata proprio per evitare che la politica potesse mettere becco più di tanto nelle scelte da compiere. Non solo. Essa è stata concepita in modo che possa travalicare l’appuntamento elettorale del 2023, ovvero che non subisca gli effetti di eventuali cambi di governo nel corso della legislatura. Niente spoils system: se il governo cadesse o arrivasse un nuovo governo dopo le elezioni, loro rimarrebbero sempre lì. Una struttura «piramidale», con un ruolo preponderante assegnato agli esperti che rispondono soltanto al vertice dell’esecutivo. Beninteso, un piano di queste dimensioni ha bisogno, per la sua gestione, di consulenti e di strutture tecniche di supporto. E’ stato sempre così, anche per altre esperienze di programmazione del passato. Per realizzare gli ambiziosi piani del primo governo di centro-sinistra nei primi anni Sessanta, decisivo fu il ruolo della Commissione nazionale per la programmazione economica (Cnpe). E da lì che venne nel 1964 il famoso «Rapporto Saraceno» che innovò l’approccio del governo ai problemi economici italiani in un’ottica, per l’appunto, di pianificazione dello sviluppo.

Ma prima della Commissione c’era stata la «Nota aggiuntiva» di Ugo La Malfa (1962), con le linee generali per una politica economica che consentisse di superare gli squilibri causati dalla crescita «libera e spontanea» del decennio precedente. E prima ancora, nel 1955, il cosiddetto «schema Vanoni», una sorta di premessa alla futura stagione della programmazione economica e dell’intervento pubblico in economia. La politica che faceva la politica economica. Oggi invece la politica è chiamata solo a ratificare scelte ed indirizzi decisi a latere, se non al di fuori, dei luoghi dove risiede la sovranità popolare. Si tratta del prodotto finale di un processo iniziato già molti anni addietro, che ha subìto una pesante accelerazione nel decennio scorso, anche a causa del rafforzamento delle funzioni interdittive e di sorveglianza delle istituzioni europee verso gli organi di governo nazionali (si pensi al fiscal compact).

Si sta costruendo il Paese del dopo-pandemia ma il Paese non ha la minima idea di quale sia il colore dei mattoni o la qualità della malta che si sta utilizzando per tirare su il nuovo edificio. C’è da dubitare che ne sappiano di più tanti di quelli che sono scattati in piedi cinquantacinque volte per applaudire Mattarella nel parlamento riunito in seduta comune.