La forza evocativa delle parole, tanto più in un mondo dove la comunicazione è centrale, gioca un ruolo sempre più importante sia per la politica sia per l’economia. Ora è tornato quello che viene chiamato bazooka di Mario Draghi, cioè una nuova iniezione di liquidità nell’eurozona a tempo indeterminato, attraverso l’acquisto di titoli pubblici e privati detto Quantitative easing.

Il bazooka richiama un’idea di potenza ed energia, in realtà in questo caso è sinonimo di debolezza. Non si può neanche parlare di pallottole spuntate, la metafora più corretta sarebbe quella che scomoda concetti quali droga e dipendenza.
Il primo Qe di Draghi è iniziato nel 2015 e terminato a fine 2108. Ha iniettato liquidità per un importo intorno ai 2600 miliardi di euro. L’astinenza per il sistema economico dell’eurozone è durata 10 mesi soltanto, da novembre, però, tornerà ad assumere moneta in dosi da 20 miliardi al mese. La Bce poi allunga i piani di finanziamenti agevolati alle imprese (Tltro) e taglia il tasso per i depositi. Il presidente della Bce durante l’annuncio del nuovo ciclo di allentamento monetario ha parlato esplicitamente di un quadro in arrivo che indicherebbe «una debolezza dell’economia dell’eurozona più protratta, importanti rischi al ribasso e un’inflazione debole».

La Bce, dunque, prevede una riduzione del tasso di crescita e dell’inflazione sia per il 2019 sia, ancor più accentuata, per il 2020.

Insomma torna in campo un progetto che, per quanto ancora modesto, inverte la direzione della politica monetaria nel Vecchio continente e fa il paio con le recenti scelte della Fed, la quale anche sotto l’incalzare della Casa Bianca, ha deciso dopo sei anni di rincari di abbassare nuovamente il tasso d’interesse. Appare evidente come i meccanismi economici in tempi di bassa crescita o stagnazione siano assuefatti alle politiche monetarie espansive. Senza di esse è prevedibile un contesto ancor più difficile.

I mercati finanziari, nonostante in questi anni siano stati i veri beneficiari di tali politiche, non smettono di festeggiare le immissioni di liquidità, riconoscendo implicitamente l’assenza di una crescita autonoma, dettata da ragioni endogene. Per non dire dello stato comatoso dell’economia reale.

Eppure in questo periodo sembrava apertosi un dibattito sui limiti degli interventi dei banchieri centrali, anche sotto la spinta delle dichiarazioni di Christine Lagarde (successore di Draghi), e emergeva la necessità di un intervento sul piano fiscale da parte agli Stati i cui conti pubblici lo avrebbero consentito. Sul sito Lavoce.info si è recentemente parlato di «un passaggio, forse storico, nel ricorso alle politiche anti-cicliche». Dall’espansione monetaria a quella fiscale. Un ritorno di attenzione alla domanda, una spesa pubblica per rilanciare consumi e di conseguenza un nuovo ciclo di crescita.

Persino la nuova Commissione europea lascerebbe intendere un nuovo corso, non più vincolato a rigore di bilancio e austerità. Giudizi che sembrano affrettati, poiché per ora sono ancora le banche centrali a esser protagoniste. Potranno con le loro scelte semplicemente affiancare un ritrovato attivismo degli Stati? Vedremo. Il rischio che si può intuire per ora è quello che la ripartenza della moneta facile, oltre che per ragioni interne ai singoli paesi, serva a posizionarsi dentro i conflitti commerciali in corso e abbia come sottoprodotto una sorta di rincorsa al prezzo più basso tra monete. Euro contro dollaro e viceversa per contribuire a rendere più competitive le proprie merci.

Medesima ambizione è presente in Cina nella svalutazione del renminbi. L’economia finanziaria e reale non tirano come sarebbe necessario e così proseguono espedienti monetari che consentano da un lato di lasciare gli assetti economico-produttivi e commerciali inalterati e dall’altro favoriscano la diffusione di politiche sovraniste e ipercompetitive.