Il presidente della Bce Mario Draghi ha confermato che continuerà la sua politica di «allentamento monetario» (il «quantitative easing») e ha fatto imbizzarrire il falco della Bundesbank Jens Weidmann che vuole il rialzo dei tassi d’interesse perché in Germania l’inflazione è arrivata alla soglia del 2%. Ma nel resto d’Europa, a cominciare dall’Italia il traguardo è incerto come lo scenario dei prossimi mesi. Per questa ragione Draghi continuerà a inondare di liquidità i mercati in attesa di un aumento dei salari che dovrebbe essere deciso dai «governi» e dalle «parti sociali». Un auspicio che si scontra con una serie di difficoltà non proprio secondarie. È necessaria un’inflazione che non solo tocchi il 2%, in tutta Europa e non solo in Germania,stabilizzandosi una volta per tutte. Prospettiva non proprio certa, considerata la volatilità dei prezzi petroliferi e di quelli alimentari. L’inflasione «resta debole» e quindi, Weidmann volente o nolente, il «Qe» continua.

C’è un motivo serio che ha spinto Draghi a fare questa uscita, del resto non nuova per il banchiere: quando i salari ristagnano – anzi, quando esistono milioni di persone con una paga da fame e precaria – la ripresa dell’inflazione è lenta, ben al di sotto delle medie storiche e questo incide tanto sulla «crescita» quanto sulla formazione della domanda. In altre parole, i lavoratori non hanno soldi e dunque non spendono. E non hanno soldi perché non esiste una domanda capace di creare lavoro, innovazione, produzione, circolazione.

Se consideriamo l’Italia questa situazione è ancora più grave. Considerando solo il settore pubblico, gli stipendi degli statali sono fermi da sette anni. A febbraio i salari hanno registrato la crescita più bassa da 35 anni a questa parte. La forbice con i prezzi è tornata a riaprirsi dopo anni di tenuta del potere d’acquisto permesso solo dalla bassa inflazione. Quell’inflazione che ora si vuole far salire. Mentre i salari restano fermi al palo. Questo problema non incide solo sui consumi, ma sulla «produttività», in caduta libera.

L’invito di Draghi evoca un nodo, molto politico, della contrattazione in Italia, e non solo: quello del decentramento della contrattazione a livello aziendale e la trasformazione di quote del salario in welfare aziendale. Questa è la vera posta in gioco nel lavoro dipendente privato. Se il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia rispolvera l’idea di legare l’aumento dei salari all’aumento della produttività, dall’altra parte Susanna Camusso della Cgil chiede lo sblocco della contrattazione e l’aumento dei salari. E spiega il conflitto in atto: «Da qui nasce la polemica sui rinnovi contrattuali e sull’idea che si debba trasformare tutto in Welfare invece che in salario» sostiene.

Tutto questo avviene mentre «la distanza tra le retribuzioni dei lavoratori e quelle dei manager si sta sempre più allargando».