Nel primo discorso al Senato Mario Draghi ha inserito tra le priorità dell’azione del nuovo Governo una riforma fiscale complessiva. Il presidente del consiglio non ha proposto delle linee guida chiare, ma quel che appare evidente è che dovrà tener conto della pressione della destra, in particolare della Lega, che avanza da tempo l’ipotesi della flat tax.

Non è forse un caso che Draghi abbia preso come unico riferimento nel suo intervento il progetto di riforma fiscale danese presentato al parlamento nel 2008 e che prevedeva una riduzione della pressione fiscale basata su una doppia azione: «l’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata». Potrebbe essere questo il terreno di un compromesso tra progressività e riduzione del carico complessivo appiattendo le aliquote?

Potrebbe essere una traccia, un orientamento di fondo particolarmente inadeguato rispetto alle urgenze del nostro tempo. Nei giorni precedenti il vice presidente di Confindustria Emanuele Orsini aveva rilanciato, durante l’audizione presso le commissioni Finanze di Camera e Senato, la necessità di una riforma fiscale complessiva basata sull’eliminazione dell’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive) per «attrarre investimenti» e una più complessiva riduzione delle imposte sui «ceti medi».

Il percorso verso una ipotetica riforma fiscale sarà evidentemente lungo e complicato, ma l’orientamento di fondo rischia di condizionarne pesantemente il percorso ancor prima che questo venga avviato. Pensare che il rilancio dell’economia italiana possa ripartire da un fisco più leggero su profitti e redditi elevati è paradossale. L’Irpef è oramai un’imposta quasi completamente a carico di salari e pensioni che insieme rappresentano oltre l’80% del gettito e quasi il 90% dei contribuenti. Il motivo è dovuto al progressivo dilatarsi dei regimi sostitutivi per redditi non derivanti dal lavoro che hanno già appiattito pesantemente le imposte sui redditi.

La commissione Visentini che varò la riforma del 1974, citata da Draghi, aveva espresso forti critiche proprio a tale meccanismo. Un esempio? Sulle rendite finanziarie è applicata un’aliquota sostituiva del 20% a fronte di scaglioni Irpef che partono dal 23%. Oggi l’aliquota massima è del 43% contro il 72% della riforma entrata in vigore nel 1974. Esempi di una dinamica quarantennale che, pur in presenza di una crescita complessiva della pressione fiscale, ha lavorato nella direzione di una riduzione della progressività fiscale. Una tendenza internazionale, che si è fatta forte della pratica della concorrenza fiscale. Lo logica è sempre stata quella riproposta da Orsini, accrescere i profitti per generare investimenti, che a loro volta avrebbero accresciuto l’occupazione, quindi i salari e a cascata i consumi, in una spirale win win.

Peccato che in questi decenni le statistiche ci dicano che l’unico obiettivo centrato sia stato il primo. Qualcuno dovrebbe sinceramente spiegare come si possa riproporre una ricetta fallimentare come cornice di fondo di una riforma fiscale complessiva nel bel mezzo di una crisi economica che sta radicalizzando le differenze economiche e sociali. Sì, esattamente. Perché non tutti vengono colpiti dalla crisi. Nel solo 2020 i risparmi delle imprese non finanziarie sono aumentati di oltre 80 miliardi.

Draghi ha affermato che «non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta», allora sarebbe tempo di superare il principale limite che si determinò a valle della riforma fiscale avanzata negli anni Settanta a cui il presidente del consiglio si richiama. Cioè rifondare la pressione fiscale su poche e semplici imposte che nel loro essere progressive ricompongono redditi e patrimoni, ispirandosi al principio secondo cui chi ha di più deve pagare di più. Così potremmo scoprire che è possibile ridurre le tasse ai ceti medio-bassi e al contempo rafforzare Stato sociale e sfera pubblica.