Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha ufficializzato in una conferenza tenuta ieri a Francoforte la fine entro dicembre del programma di acquisto di 2.600 miliardi di euro di debito – il «quantitative easing» (Qe)- che ha sollevato l’Eurozona dalla deflazione e ha dato un contributo decisivo alla ripresa dopo la grande crisi.

Tuttavia, l’Eurotower ha recepito i segnali di rallentamento dell’economia dopo un 2017 in cui la crescita è stata, mediamente, più sostenuta di quanto previsto. E, per questa ragione, ha confermato che il programma di reinvestimenti durerà a lungo, anche dopo la data del primo aumento dei tassi. Tali reinvestimenti avverranno nelle giurisdizioni in cui giungeranno a maturazione i bond e saranno spalmati lungo tutto l’anno in modo da non influenzare i prezzi.

È rimasta invece invariata la politica sui tassi, che resteranno sui livelli attuali almeno fino all’estate del 2019 . La politica monetaria della Bce resta comunque soggetta a possibili cambiamenti qualora le stime dell’economia dovessero peggiorare ancora.

Le previsioni non sono ottime. La Bce ha limato al ribasso le stime di crescita del pil per il 2018 e il 2019 rispettivamente all’1,9% (da 2%) e all’1,7% (da 1,8%) mentre è stata confermata la proiezione di un +1,7% nel 2020 e introdotta la stima di un ulteriore rallentamento all’1,5% nel 2021.

Pensano le difficoltà dell’industria dell’auto dopo l’introduzione dei vincoli sulle emissioni di gas nocivi, la guerra dei dazi di Trump contro il resto del mondo, la deboleza dei cosiddetti «mercati emergenti», la volatilità accentuata dei mercati finanziari. «I recenti dati macroeconomici indicano una crescita più lenta in prospettiva» ha detto Draghi che ha sottolineato come il rallentamento sia in atto da tempo.

Emearge l’immagine di un’economia che non riesce a fare a meno della «droga monetaria» alla quale la Bce l’ha abituata. Un problema che si pone in coincidenza con la fine del programma di acquisti e certo non sconosciuto a Francoforte che ieri ha confermato come, ormai, i programmi di acquisto come il «Qe» facciano parte integrante delle armi (il «bazooka» di Draghi, esibito quando pronunciò nel 2012 le parole «Whatever It takes» per difendere l’euro e l’eurozona).

Il senso della continuazione degli acquisti, sia pure in forma diversa, sta in questo: simili programmi possono essere riattivati in qualsiasi momento, quando i banchieri lo riterranno di nuovo necessario. Si valuta per questo l’ipotesi di un allungamento delle scadenze per le aste già condotte nei mesi scorsi.

In questo schema rientra anche l’Italia che ha fortemente beneficiato del programma. La fine del «Qe» può penalizzarla. Oltre tutto con un Pil in forte rallentamento, superiore a quello degli altri paesi, al punto da essere diventato uno dei principali motivi di scontro con la Commissione Ue.

Il governo «gialloverde» lo ha fissato fantasiosamente all’1,5% nel 2019, Bruxelles (e non solo) ritiene che sarà inferiore, all’1% se non meno, e a scendere. Al paese è stata assegnata una quota inferiore di mezzo punto percentuale rispetto al quinquennio precedente. Questo significa che in prospettiva vi sarà una lieve riduzione degli investimenti in Btp.

Al suo successore, a ottobre del 2019, Draghi lascerà probabilmente il compito di delineare la nuova direzione di politica monetaria e di dare le risposte alla prossima crisi.