Della sua passione per i puzzle, soprattutto per quelli che riproducono dipinti di antichi maestri, Margaret Drabble non ha mai fatto mistero. Non sono pochi i giornalisti che arrivando in casa sua per farle un’intervista ne hanno trovato uno da completare sul tavolino del soggiorno. Drabble pensa che ogni scrittore abbia bisogno di un passatempo per svuotare la mente dalle parole e che in questo senso i puzzle siano molto più interessanti delle carte. Pensa che fare un puzzle richieda creatività oltre che spirito di imitazione, non solo il gusto di scoprire ma anche il piacere di immaginare. Una decina di anni fa, quando era certa che non avrebbe più scritto un altro romanzo dopo The Sea Lady (2006) perché ormai temeva di ripetersi, ai puzzle ha perfino dedicato un libro che pagina su pagina si è trasformato in un memoir. Figlia di un’insegnante e un magistrato, nata a Sheffield ma educata in un istituto quacchero di York, laureata in letteratura a Cambridge, regina della swinging London intellettuale, narratrice ad alte tirature della vita femminile tra emancipazione e minigonna, in quel libro jamesianamente intitolato The Pattern in the Carpet (2009) ha spiegato di essere debitrice alla zia materna, una maestra elementare, del sollievo che tuttora le procurano i puzzle.

Strategia del puzzle
È stata zia Phyl, durante le vacanze passate insieme nella sua vecchia casa del Lincolnshire, a insegnarle a lavorare all’uncinetto e a infilare collane di perline colorate, a realizzare tappeti con i ritagli di stoffa e a preparare biscotti per il tè, a cucire sacchetti di lavanda; soprattutto a esercitare la pazienza e a divertirsi con i puzzle. Di quelle serate trascorse da bambina con sua zia, Margaret Drabble ricorda l’eccitazione per un puzzle quasi finito e il panico del pezzo mancante, l’affannosa ricerca sul pavimento, lo stupore per il pezzo sempre scartato che invece all’improvviso combacia. Beato Angelico, Vernet, Constable, Tiziano, Matisse: ogni volta che apre una scatola nuova per cimentarsi con una nuova opera d’arte, Drabble segue ancora oggi il metodo imparato nell’infanzia da zia Phyl. Prima cerca i pezzi provvisti di un bordo liscio e compone la cornice, poi dispone tutti gli altri in mucchietti separati per colore, infine li unisce procedendo da una zona laterale. Racconta che ha cambiato strategia solo una volta, per la Nascita di Venere. Conclusa la cornice, si è imposta di completare lo sfondo prima di cominciare la figura della dea botticelliana. «Il contorno vuoto del suo corpo appariva suggestivo e stranamente significativo sul tavolo di lacca scuro. Non sarò mai capace di ripetere quell’esperimento. Non so cosa indicasse quello spazio vuoto, ma sembrava in qualche modo uno spazio pieno di senso».
Per quanto dichiari di non avere mai più utilizzato questa tecnica bizzarra, almeno non per fare un puzzle, l’autrice sembrerebbe in realtà essersi ispirata proprio ai puzzle e a quella Venere vuota, a quell’oscuro contorno di corpo femminile, per comporre The Pure Gold Baby, il libro che di lì a poco avrebbe iniziato a scrivere e che nel 2013 sarebbe diventato, contrariamente a ogni intenzione o scaramantico timore, il suo diciottesimo romanzo. Evocativo di una sfigurata innocenza ma anche di una rinascita arcana, se il titolo ricalca infatti un verso della celebre Lady Lazarus di Sylvia Plath, il bellissimo, sorprendente e sofferto The Pure Gold Baby esce adesso nella nostra lingua (La bambina d’oro puro, traduzione di Beatrice Masini, pp. 317, € 18,00) da Bompiani, che lo scorso anno ha pubblicato in italiano il più recente La piena e che ci auguriamo voglia continuare a proporre questa grande scrittrice ormai quasi ottantenne, così poco tradotta e non troppo conosciuta qui da noi. Chi è nel romanzo la bambina d’oro puro, se non una creatura irraggiungibile che abita una realtà e un tempo di misura tutta sua? Che cosa rappresenta se non una figura misteriosa che il lettore potrà guardare solo attraverso i pensieri e le parole degli altri personaggi, famigliari o amici che compongono lo sfondo su cui il profilo di lei dovrebbe risaltare per contrasto da protagonista? E come è costruito il testo se non in forma di gigantesco puzzle i cui infiniti pezzi sono rappresentati da avvenimenti che si completano tra loro ripercuotendosi sul presente dal passato o proiettandosi addirittura nel futuro, componendosi nello sguardo anche contraddittorio dei differenti comprimari? Non meraviglia che Drabble recuperi qui la trama del suo terzo romanzo, in cui una ragazza rimasta incinta del proprio insegnante decide di tenere il bambino a insaputa di lui, quando si ricordi che la protagonista alleggeriva il tempo della gravidanza facendo puzzle da migliaia di pezzi.
La bambina d’oro puro comincia tuttavia proprio dove si ferma The Millstone (1965). La vita di Jess prima di Anna è raccontata a strappi, importa soltanto per il presagio che la occupa, o come direbbe l’autrice per quanto contiene di prolettico. «Quando ci guardiamo indietro, semplifichiamo, ci dimentichiamo i pantani, i dubbi, i movimenti all’indietro, e vediamo solo la curva splendente della storia che ci siamo raccontati per mantenerci vivi e speranzosi, quella curva splendente che ci ha condotti nel futuro. La via radiosa», scrive Drabble nelle prime pagine del libro citando il titolo di un altro suo romanzo, The Radiant Way (1987). Dalla nascita di Anna l’esistenza di Jess appare completamente trasformata: l’avventurosa antropologa, la studentessa che era stata in Zambia sulle tracce di Livingstone e nei pressi del lago Bangweulu aveva visto i misteriosi bambini con i piedi a forma di chela di aragosta, smetterà di viaggiare diventando piuttosto quella che lei stessa definisce un’antropologa urbana. Anna soffre di un imprecisato ritardo mentale: è perciò destinata a rimanere per Jess «un carico prezioso da portare lentamente lungo la strada della vita», un vincolo e un limite alle sue aspirazioni, un radioso fardello. Commenta l’amica Nellie, vicina di casa a Finchley e voce narrante del romanzo, che Jess farà di Anna la sua vocazione.

Le coincidenze del destino
Sapientemente intrecciando sequenze narrative a pagine saggistiche, maneggiando con regale disinvoltura tematiche sociali sanitarie antropologiche, servendosi della sua lingua così limpida e spoglia, così spietata però partecipe e ironica e vibrante, Drabble inventa una narrazione ibrida e impura che le permette di scivolare senza sbalzi dalla prima persona singolare alla terza plurale, dagli anni sessanta a un presente molto prossimo per comporre una vicenda imperniata non soltanto sulla maternità, né soltanto dedicata alle ragazze ormai invecchiate della sua generazione. «Quello che cerco di scoprire è il rapporto tra progetto e coincidenze. Sono infatti convinta che se potessimo salire sopra il mondo ci accorgeremmo che le coincidenze in realtà appartengono a un disegno. Io, come credo altre persone, ho bisogno di vedere un disegno nelle coincidenze. Forse ho paura di ciò che è imprevedibile, dell’idea del caos e del disordine, ho bisogno di trovare un ordine», dichiarava in un’intervista rilasciata alla «Paris Review» nel 1978. Trentacinque anni e nove romanzi dopo, Margaret Drabble firma con La bambina d’oro puro una vicenda corale che è soprattutto una storia sull’imperfezione della vita e sull’anarchica mancanza di un disegno. Non c’è forma nell’esistenza, nessuna rivelazione nelle coincidenze del destino. Forse, a differenza di quanto accade nei puzzle, non c’è nemmeno una cornice.