«Nel mio film l’aspetto più importante non sono il tema poliziesco o la storia d’amore ma l’epoca che racconta. Se facciamo dei film su questo è per mostrarne la durezza» diceva Aleksey German parlando di Il mio amico Ivan Lapshin (1986), qualcosa che il regista scomparso nel 2013 aveva conosciuto bene nella sua vita d’artista passata a lottare con censura, arroganza, violenza del regime sovietico. In una bellissima intervista raccolta da Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian nella loro installazione Journey to Russia lo ascoltiamo spiegare questa fatica, la sfida al compromesso e all’arroganza dei burocrati che decidono l’arte proni ai diktat della politica. Sono le stesse umiliazioni che affronta Sergei Dovlatov, lo scrittore russo (in Italia tradotto da Sellerio) la cui opera è rimasta oscura finché non è emigrato a New York (morendo l’anno dopo, nel 1989), messa al bando nella Russia sovietica degli anni Settanta (era Breznev) perché non allineata, troppo critica, «decadente», senza eroi, impastata di disperazione, rabbia, stanchezza per quella paludosa violenza quotidiana. La società degli scrittori lo respinge, come del resto rifiuta di pubblicare il suo amico Brodsky, Dovlatov è metà armeno e metà ebreo, altre buone ragioni per essere guardato con sospetto.

«I MIEI AMICI sono sognatori, ubriaconi, libertari» dice di sé nelle lunghe nottate passate a bere, a ballare, a leggere versi che non troveranno mai luce nelle case piene di gente, di giovani, di artisti, di espedienti come il mercato nero, di sogni, rimanere o partire, un esilio che sarà per sempre. Della necessità di una indipendenza da difendere a prezzi altissimi, invece del servilismo e della mediocrità.
Dovlatov, di Alexey German jr. – che in Italia esce con il «sottotitolo» I libri invisibili – segue una manciata di giorni della vita dello scrittore in un freddissimo novembre del 1971, otto anni prima che emigri in America, dove muore nel 1990 senza sapere mai che diventerà una leggenda, tra rifiuti costanti opposti ai suoi testi e scontri con le autorità nella Russia degli anni settanta, il tempo di Breznev, della censura, dell’arte come celebrazione del potere e della posizione degli artisti che devono chinarsi e assecondare il conformismo, i cambi di rotta – in quei giorni l’apertura dei primi tempi di Breznev si trasforma in una nuova esigenza di propaganda – accettare di essere servili oppure rimanere fuori da tutto mentre le loro opere diventano carta straccia. Lui, Dovlatov, per vivere scrive su un giornale della fabbrica, ma i suoi articoli non vanno mai bene: troppa ironia, troppo distacco, poca enfasi sull’Uomo Socialista.

PERSINO quando accetta di intervistare il poeta-minatore quest’ultimo invece di parlargli dell’ispirazione dei suoi versi, il lavoro, gli confida il dolore per la perdita dell’amata trovata insieme a un altro, lui che l’aveva eletta la sua musa e che da allora ha perso ogni ispirazione – finirà in disgrazia perché nelle sue nuove composizioni nomina troppe volte Dio. La moglie lo ha messo alla porta, la figlioletta amatissima a volte lo giudica specie quando la porta in giro la notte nelle fumosissime sessioni di poesia, l’amico Brodsky rischia di nuovo la prigione, Dovlatov pensa al passato, a quando era di guardia nei campi dei prigionieri, gli piace provocare: «Piacere Franz Kafka» dice alla ragazza sul set. E lei: «È un nome francese?». Intanto i giorni scorrono via, imprigionati nei loro riti, cercare i soldi, un cognac, le serate sperando di trovare qualcuno compiacente che lo faccia pubblicare, una bambola tedesca da regalare alla bambina.
Ma Dovlatov non è un biopic, a German jr. quello che interessa è il racconto di un’epoca e Dovlatov (a cui dà vita il magnifico attore serbo Milan Malic) potrebbe essere suo padre, il regista German, nella stessa città dove lui stesso è cresciuto, Leningrado, e in quella sua vita «underground» che riesce, nonostante tutto, a sottrarsi al controllo opponendovi una vitalità ribelle pure nella disperazione.

INTRECCI DI STORIE, di esperienze, di narrazioni che vanno oltre le singole vite, attraversando l’immaginario – il film guarda a quel cinema sovietico dissidente degli stessi anni, coi suoi interni clandestini, le atmosfere di rarefazione e di ironia catturandone le atmosfere col sentimento del presente. In controluce c’è forse anche la Russia di oggi dove gli artisti continuano a essere processati, i giornalisti messi a tacere, i movimenti e la cultura Lgbtq+ banditi, i dissidenti perseguitati; di certo c’è – e senza retorica – la storia della sua cultura, di quei suoi artisti indocili, di un’arte potente che il presente sembra voler dimenticare.