Gli effetti mediatici della guerra asimmetrica sono tornati davanti ai nostri occhi, almeno quelli di chi ha voluto vedere, o solo scorgere un frammento del video diffuso dall’Is, nel quale si mostra l’uccisione del giornalista americano James Foley. Nella notte italiana, quando si è diffusa la notizia, sui social network è subito partito un ragionamento collettivo, caotico e talvolta ingolfato, ma ricco di spunti, sulla necessità o meno di mostrare le immagini di una decapitazione. È propaganda dell’Is? Funziona davvero, crea l’effetto contrario e quindi si deve pubblicare? O mostra un lato terribile di una guerra, dando in pasto immagini crude come potrebbero essere quelle che – se mostrate – renderebbero evidente la durezza e la crudeltà anche dei bombardamenti? E ancora, come dare la notizia?

L’impatto emotivo delle immagini crea un immediato ragionamento nell’animo di chi deve decidere cosa mostrare e come farlo. Secondo Giuseppe Smorto, responsabile di Repubblica.it, «Non ci sono dubbi, quel video non va pubblicato. Non aggiunge nulla, rischiamo di diventare megafono dell’Is. Non riesco a non provare dolore personale per queste storie, specie quando a morire sono i reporter, come Foley o Camilli, gente che abbiamo incontrato, con cui abbiamo lavorato».

La pensa così anche Marco Bardazzi, de La Stampa: «Abbiamo pubblicato solo il fotogramma iniziale. Come accade nella vita reale, quando viene posto un velo bianco sui cadaveri, anche nel digitale dovremmo usare lo stesso rispetto per i morti. Non credo ci sia una regola, ma in generale non penso che fare giornalismo significhi mostrare tutto, specie se lede una forma di discrezione e di rispetto».

Il Corriere, invece, subito dopo il diffondersi delle immagini ha usato un frame del video, lanciandolo su Twitter; nella foto si vede il militare dell’Is in procinto di tagliare la gola al reporter americano. Un’immagine che – poco dopo l’invio – è stata tolta, a dimostrare la complessità di gestione di un certo tipo di materiale «giornalistico». Mara Gergolet, vice caporedattrice degli esteri al Corriere, specifica che «in redazione è parsa subito una notizia molto importante, specie per le sue implicazioni internazionali, a cui abbiamo deciso di dare spazio. Si è stabilito di non mettere il video, ma solo le immagini, cercando di contestualizzare con il testo la loro durezza, spiegandole e sottolineandole la rilevanza.Si è deciso di mostrare le foto per testimoniare che queste cose purtroppo accadono, lo abbiamo fatto anche in altre circostanze».

È complicata la gestione e la decodifica di immagini di questa crudeltà. Mostrarle significa dare idea del baratro in cui il mondo sembra essere precipitato, o è piuttosto un modo per fare scattare una sempre più facile e scontata indignazione? Verso chi, per altro? Di certo verso l’Is, ma anche – perché no – verso le circostanze (Iraq, Siria, ce ne sono molte) che hanno spinto l’Is a uccidere in quel modo. Alle armi e alla tecnologia delle grandi potenze, che ormai bombardano a distanza, senza neanche umani a guidare aerei o artiglierie ma utilizzando i droni, con vittime che rimangono disperse nelle macerie e che spesso neanche vengono mostrate, come a specificare che la guerra non ci riguarda, i soldati dell’Is reagiscono nella forma più primitiva, rozza e banale, spedendoci in faccia con un abile ufficio stampa «social» la forma più semplice e cruda di morte. Uno sgozzamento, nel mezzo di un deserto che sembra un set cinematografico, con pose e mimiche da teatro tragico.

Proprio mentre intendono dire il contrario: che non è arte, rappresentazione, bensì la «realtà», la conseguenza di una guerra sempre più ampia.