Stanno rivoltando Baghdad come un calzino: tre statunitensi, contactor di una compagnia di sicurezza privata, e il traduttore iracheno sono stati rapiti venerdì da uomini armati in un appartamento nella capitale. La notizia è stata resa nota solo ieri, mentre si moltiplicavano le forze armate per le strade, gli elicotteri in cielo e i checkpoint volanti alla caccia dei responsabili.

Sono stati portati via dal quartiere Sihha, nell’area meridionale di Dora a maggioranza sunnita, ma controllata da miliziani sciiti. Due di loro avrebbero origini irachene e tutti e tre sarebbero impiegati all’aeroporto. L’appartamento, dicono fonti locali, non era la loro residenza, ma un luogo «sospetto, dove bere e incontrare donne».

Così come la dinamica, le ragioni del rapimento non sono chiare: secondo fonti Usa, responsabili sarebbero le milizie sciite Asa’ib Ahl al-Haq, vicine all’Iran e attive a Dora. Ma che si tratti di delinquenza comune o di rapimento politico, resta l’incapacità delle autorità irachene di garantire un minimo di sicurezza nella capitale. Sono numerose le gang che a Baghdad estorcono denaro e puniscono con omicidi e rapimenti, violenze rese peggiori dall’instabilità dovuta a Stato Islamico e attentati settimanali contro le principali città irachene.

E se nell’est Iraq l’Isis agisce con i kamikaze, in Siria mostra che la propria abilità militare è intatta. Questo dice il massacro terribile di Deir Ezzor. Ancora più terribile perché, forse, evitabile: dove erano gli aerei della coalizione, i francesi, gli statunitensi, i russi, che ogni giorno sorvolano i cieli siriani, mentre lo Stato Islamico decapitava e crocifiggeva centinaia di civili?

I jet della Repubblica francese, alzatisi in volo dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre, hanno bombardato Raqqa (a soli 140 km da Deir Ezzor, distanza insignificante per un aereo da guerra) per qualche giorno per poi tornare al proprio posto. L’operazione contro Raqqa oggi si mostra per quello che era, una rappresaglia da dare in pasto all’opinione pubblica e non un’azione strategica diretta a indebolire la macchina da guerra islamista.

I 150 morti e i 400 rapiti di Deir Ezzor – il terrificante bilancio dell’azione di domenica – dicono che l’Occidente e la Russia non sanno come arginare l’Isis, o non vogliono. Nonostante la perdita di Ramadi e Sinjar, in Iraq, e del nord della Siria, il “califfato” non arretra e si adegua ai pochi raid dal cielo. Ha armi e uomini, ha la capacità di contrattaccare e la sfrontatezza di compiere una carneficina per fini propagandistici. I morti di Deir Ezzor (85 civili e 50 soldati governativi, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani; 280 tra civili e militari secondo la tv di Stato Sana), sono sunniti e combattenti pro-Damasco, “apostasi” nella visione manichea del califfo. Sgozzarli è strumento di propaganda verso gli adepti presenti e futuri, modo per rafforzare la convinzione ideologica di essere parte di una società nuova e “ripulita”.

Sul piano militare l’avanzata a Deir Ezzor fa segnare un punto fondamentale all’Isis. La città è a metà tra Raqqa e il confine con l’Iraq e tra le più ricche di giacimenti petroliferi. Non a caso è oggetto di attacchi da oltre un anno: dal dicembre 2014 l’Isis cerca di assumere il controllo di Deir Ezzor, ancora nelle mani di Damasco. Le truppe, però, sono circondate: l’Isis ha il controllo del deserto orientale di Deir Ezzor e mantiene le posizioni ad ovest, le strade verso Raqqa, Homs e Palmira. A segnare la linea del fronte è il fiume Eufrate, lungo la frontiera orientale della città: a sud ovest sta il governo, a nord est l’Isis che con l’attacco di domenica ha sfondato entrando nel quartiere settentrionale di al-Bagaliyeh.

I kamikaze, che si sono fatti esplodere ai confini della città, hanno aperto la strada ai miliziani armati. Nel silenzio dei jet occidentali e russi che non hanno frenato né impedito l’avanzata, da tempo tentata dallo Stato Islamico. C’è da chiedersi perché le posizioni Isis intorno Deir Ezzor non siano state oggetto di frequenti raid, come a Raqqa in quei pochi giorni di novembre.

Eppure anche a Deir Ezzor si muore di fame, come a Madaya, città al confine con il Libano che – con mesi di ritardo – ha attirato l’attenzione globale. Lì, dove la colpa della denutrizione è imputata al governo di Damasco e ad Hezbollah, si cerca di intervenire con aiuti e negoziati. A Deir Ezzor, dove è il governo ad essere assediato, l’assenza di cibo e la morte per fame di almeno 15 persone indignano di meno. Venerdì jet russi avevano fatto piovere 22 tonnellate di aiuti sui 200mila residenti, ma non bastano.

Ora alla fame si aggiunge la presenza fisica dell’Isis: i sopravvissuti al massacro fuggono verso i quartieri ancora sotto il governo, mentre fonti locali riportano informazioni contrastanti. Secondo l’Osservatorio Siriano ieri l’Isis avrebbe preso anche il quartiere di Ayash, mentre secondo fonti locali le truppe di Damasco starebbero per riprendere al-Bagaliyeh.

Intanto la diplomazia continua la sua marcia, apparentemente avulsa dalla realtà sul terreno: ieri i ministri degli Esteri dei paesi membri della Ue si sono incontrati per discutere della questione siriana, mentre per domani è previsto a Zurigo un meeting tra il segretario di Stato Usa Kerry e il ministro russo Lavrov per preparare il round di negoziati che dovrebbe aprirsi il 25 gennaio.