La gestazione di Portiere di notte in apparenza è meno complicata di quanto si possa prevedere se ci si ferma alla pubblicistica e ai documenti rinvenuti intorno al film di Liliana Cavani. Tutto appare chiaro già nel 1974, tra l’uscita in sala e la pubblicazione da parte di Einaudi della sceneggiatura, scritta dalla regista con la collaborazione di Italo Moscati ed in prima stesura di soggetto con Amedeo Pagani e Barbara Alberti. L’ouverture è affidata a un lungo «memoir» della stessa Cavani, non esente da riflessioni filosofiche e sociologiche. Infatti, la possibilità di vedere la pellicola, restaurata dalla Cineteca Nazionale e Istituto Luce ed ospitata in Venezia Classici, offre un’osservazione retrospettiva di quel ristretto lasso temporale in cui sembra consumarsi un duplice – e per certi versi inaspettato – destino di un film che nelle intenzioni della regista avrebbe dovuto ricucire i fili di alcuni discorsi raccolti durante la realizzazione, nei primi anni 60, di Storia del Terzo Reich e di La donna nella Resistenza, due delle inchieste televisive che precedettero l’ esordio nel lungometraggio con il primo dei suoi tre Francesco.

E, inoltre, dare una risposta se non definitiva, almeno soddisfacente alla «curiosità» di conoscere dov’erano finiti i nazisti e come si erano nuovamente annidati nella società, uscita dal secondo conflitto mondiale da loro causato. In tal contesto si conosce il dialogo che la Cavani ebbe con Primo Levi che, in quel periodo, poneva al centro della sua riflessione la cosiddetta «zona grigia». Così, nel 1978 in un’intervista Levi accenna al tema che lo tormentava e al film, liquidato con un quasi assolutorio «rozzamente» (sarà un riferimento alla chiave psicoanalitica scelta dalla regista?), pur riconoscendo che «il tema dei rapporti fra l’oppresso e gli oppressori, fra la vittima e il carnefice, nelle sue sfumature è un tema da indagare». Ed invece, il grande successo, seguito da polemiche e censure, la scelta stessa dei protagonisti (un Dirk Bogarde sadico e cerebrale ex-SS, ma non meno femmineo di Morte a Venezia, e soprattutto Charlotte Rampling, a sua insaputa tragica Salomè impegnata seminuda in un perverso sabba destinato ad alcuni ufficiali nazisti – eletta ad icona di un erotismo androgino che ricollocava in un alveo d’ambiguità le donne proprio all’indomani del ’68 e della nascita dei movimenti femministi), non per nulla esaltati in privato da Luchino Visconti, incunearono Portiere di notte in un certo cinema italiano, amato più dalla pancia del pubblico che dal cervello dei critici e dalle forbici della censura.

Cosa che accadde a molti film, baciati dagli incassi e prodotti tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni settanta, a loro modo monopolizzati dalle fantasticherie post-sessantottine e dalla «trilogia della vita» di Pasolini, vero propulsore autoriale di molto cinema erotico di serie b, disceso ahilui dal Decameron, che subì vere e proprie deviazioni nel porno, sopratutto nelle sue varianti contemporanee «nazi», dovute agli incroci ancora una volta autoriali proprio di Portiere di notte e del Pasolini postumo di Salò (in mezzo vi cade anche il clamoroso e anomalo caso di Ultimo tango a Parigi, le cui suggestioni pinteriane dovranno prima o poi essere conteggiate nella sua evoluzione storica e critica). Inoltre, sono questi anni in cui si discute intorno all’erotismo in funzione pubblica e sovversiva.

La censura, come detto, non fa mancare la sua presenza e a Bologna, intorno alla Cineteca diretta da Vittorio Boarini, verrà organizzato un convegno «Erotismo, Eversione, Merce» che qualche eco a lungo andare l’avrà nel proseguo del dibattito, scorsi gli intervenuti, tra cui Pasolini, Guattari, la Pivano, ma anche giuristi, teologi e scrittori, e il livello delle loro relazioni. La stessa Cavani entrerà a gamba tesa sull’incontro in un saggio, ampio e ad alto tasso polemico, pubblicato su Belfagor. Se tra i convenuti bolognesi ad aleggiare è la figura di Lacan (e di Freud), in Portiere di notte, sdraiata sulla chaise-longue psicoanalitica del cinema, è la storia con la s minuscola a sorvolare la Grande Storia, disfatta in una realtà che conserva, a fari spenti, i propri fantasmi prima che qualcuno li accenda nuovamente nel quotidiano.