Scende di corsa dalla sua postazione sull’albero e guarda con aria sdegnata la visitatrice che le ha rivolto un ciao melenso. Bertuccia, 30 anni, ha il carattere un po’ rovinato dai tanti anni trascorsi in una piccola gabbia nei pressi di Modena finché non la scoprì il Corpo forestale; alla fine fu affidata al Parco faunistico Piano dell’Abatino.

Sembrano più bonari i cebi dai cornetti, scimmie molto brave nell’uso di attrezzi. Sono circa 120 i primati che vivono qui. Alcuni provengono da laboratori, altri sono stati affidati al Centro dopo un sequestro. Le scimmie sono fauna esotica, non possono essere rilasciate nell’ambiente ma non possono nemmeno tornare nei paesi d’origine. Staranno per sempre qua, fra i boschi. Come l’ara rossoverde, un grosso pappagallo che urla da qualche parte su alti rami, e come il pavone che passeggia tranquillo mentre sta facendo la muta della coda.

QUESTO CRAS (Centro recupero animali selvatici) è anche un Crase (Centro recupero animali selvatici esotici) e un «santuario»: una struttura che ospita a tempo indefinito animali che, a causa della specie o della condizione fisica, non possono essere reimmessi in natura dopo le cure. «Nella quasi totalità dei casi non facciamo eutanasia sugli animali non più autonomi, salvo in caso di condizioni estremamente critiche, associate a gravi sofferenze» spiega il direttore Antonio De Marco, biologo e ricercatore del Cnr. Il Parco si trova così a ospitare, fra gli altri, un capriolo con una zampa amputata e una cerva con la ricostruzione ben riuscita di un arto.
Sta benissimo invece Torquato, un tasso che continua a girare intorno mordicchiandoci gli alluci. Portato qui da piccolo orfano, ora è cresciuto e pasciuto, ma non vuole prendere la strada dei boschi. E’ imprintato ai rapporti con gli umani e con le crocchette sempre disponibili. Non si staccava dal Centro nemmeno la volpacchiotta Amélie; ma una volta arrivata in età nuziale, è sparita.

Ha buone speranze di guarire e andarsene dopo le cure dei veterinari quell’istrice che, rannicchiato nel suo recinto, fa vibrare gli aculei con il suono di un bastone della pioggia. Era arrivato con una grave ferita dovuta all’impatto con un’auto – che in fondo gli aveva tagliato il cammino, su quel nastro di asfalto in un’area boscosa.
Forse non tornerà autonomo quel lodolaio dall’aria mogia, se ali e zampe non recupereranno abbastanza. La maggior parte dei rapaci – come gheppi, poiane, gufi e altri – portati al Centro sono stati feriti da pallini. Ogni anno viene anticipata la stagione della caccia. Ma «su cento animali feriti dalle cartucce, o dagli attrezzi di morte dei bracconieri, solo uno arriva in un Cras. Gli altri agonizzano in solitudine», si rincresce il direttore.

I CENTRI DI RECUPERO SONO INQUADRATI dalla legge 157 del 1992: «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio». Per il direttore De Marco è stato «un errore di fondo, mettere insieme la tutela degli animali non domestici e la caccia. Oltretutto più che di antica tradizione venatoria dovremmo parlare della fiorente industria delle armi… Non si può pensare di affidare alla caccia la difesa della natura. Del resto, altro che controllo della fauna in eccesso! Sovente proprio i cacciatori hanno introdotto specie delle quali oggi si lamenta il soprannumero».

I Cras (ce ne sono a decine in Italia, gestiti da Lipu, Wwf e altre organizzazioni), chiudono per mancanza di fondi, si rammarica De Marco: «Eppure ne servirebbero molti di più…Ma costano. Qui abbiamo molte migliaia di euro di spese all’anno, per il personale, per i volontari, le cure, l’alimentazione…Poi c’è la burocrazia. Negli apparati statali (ministeri, regioni, enti locali) ci sono persone con sensibilità e intelligenza, ma sono spesso ostacolate da una burocrazia rigida e miope, incapace di far applicare con buonsenso normative spesso non chiare».

I SELVATICI, le cui storie si intrecciano a centinaia in centri come questo, educano alla convivenza, spiega il biologo che da circa 30 anni si dedica con il suo gruppo al progetto. «Anche il modo in cui un paese tratta questo tipo di animali – che non ha un’utilità immediata – è una misura del livello di civiltà. Ogni pezzo di ambiente ormai è copia di quelle che sono le nostre esigenze. Agli animali non domestici si lascia sempre meno spazio. Cementificazione, onnipresenza umana, deforestazione, aumento della temperatura globale…». Ci guardano curiosi due occhietti neri, nel muso striato di un orsetto lavatore, anch’esso affidato al Centro dall’autorità giudiziaria dopo un sequestro.

AL PARCO DELL’ABATINO gli alloctoni sono davvero molti (fra questi i mufloni). Un tema delicato. Il regolamento europeo 1143/2014 parla di «specie esotiche invasive» (dai procioni agli scoiattoli grigi, dalle tartarughe acquatiche americane alle nutrie) che non possono essere importate, commerciate, possedute, allevate, trasportate o rilasciate nell’ambiente. E questo è giusto. Ma, spiega il direttore del Parco, «la regola base di questa nuova norma è che gli «alieni invasivi» andrebbero soppressi. Non lo si dice chiaramente, ma di fatto non si predispongono alternative. E noi, qui, che dobbiamo fare di quest’orsetto, ad esempio? Ci è stato affidato in sequestro giudiziario, spese di mantenimento a nostro carico, poi ci dicono che lo stiamo tenendo a nostro rischio; qualora fuggisse, sarebbero guai».

Il direttore fa peraltro l’esempio di un alieno rivelatosi storicamente utile, quasi provvidenziale. «Racconta un recente articolo di Science che l’affermazione del ratto grigio del Nord Europa sul ratto nero, soprattutto nei grossi centri urbani, fece scemare la diffusione della peste. Nel ratto grigio la pulce responsabile della trasmissione del bacillo della peste lo ha adottato come ospite esclusivo, mentre nel caso del ratto nero essa può trasferirsi all’uomo infettandolo.»
Molti animali, come caprioli, istrici, tassi, lupi e tanti uccelli, soprattutto rapaci, sono stati portati in questo e in altri Centri di recupero grazie a interventi del Corpo forestale. Ci si chiede se non sia un errore averlo accorpato con l’arma dei carabinieri. Spiega Antonio De Marco: «Nel Lazio è stato specificato che intervenire nel soccorso della fauna in difficoltà non rientra nei compiti dei carabinieri forestali. Ce ne siamo già accorti: dal momento in cui è passata la disposizione, il numero degli animali portati qui dai carabinieri forestali rispetto a prima è diminuito del 50%, e da qualche mese è praticamente pari a zero.»

Lo ciao mieloso della visitatrice è accolto con affetto da un animale che selvatico non è di certo e scorbutico ancor meno: Pistoccu, uno dei tre asini affidati al Centro da un’anziana signora che ha cercato per loro un rifugio duraturo.