L’attuale irresistibile tendenza a stringere legami sempre più vincolanti tra le varie parti del mondo, ovvero il fenomeno cui è stato dato il nome di globalizzazione, ha alle spalle una lunga storia di connessioni e di convergenze: da un ventennio, ormai, gli storici studiano le complesse vicende di tali incroci transcontinentali, il loro sviluppo e i loro effetti, traendone importanti stimoli metodologici, fra cui l’invito a sfuggire quel tanto di nazionalismo provinciale, di teleologismo anacronistico, e d’inguaribile eurocentrismo che ancora affliggono alcuni dei nostri studi.

È perciò lodevole la decisione della Einaudi di tradurre la Storia del mondo in sei corposi tomi, originariamente uscita dall’editore Beck di Monaco di Baviera, un progetto ideato dal tedesco Jürgen Osterhammel e dal giapponese Akira Iriye, di cui è appena uscito il quarto volume, titolato Verso il mondo moderno 1750-1870 (a cura di Sebastian Conrad e Jürgen Osterhammel, pp.LXI-1016, euro 110,00). Il volume è significativo perché costituisce per certi versi una sorta di «cartina al tornasole» dell’intera opera, che puntando dichiaratamente a offrire una visione meno centrata sulla conquista europea del mondo, si misura in queste pagine con il periodo di massimo fulgore dell’espansionismo occidentale.

I due curatori non nascondono, nella loro introduzione, le difficoltà dell’impresa e anzi si mostrano consapevoli del fatto che studiare i nessi globali in cui si intrecciano le varie parti del mondo è affare rischioso perché enfatizza quel relativamente piccolo settore sociale dedito a praticarli. L’epoca di cui parliamo è sempre stata raccontata come segnata da due eventi cataclismatici e periodizzanti, capaci di avviare la conquista europea dell’intero mondo: la rivoluzione francese e l’inizio, in Inghilterra, del processo di industrializzazione.

Ora, l’impianto revisionista del volume curato da Conrad e Osterhammel vorrebbe offrire di questo periodo una lettura alternativa, un diverso percorso verso la modernità (il lemma tedesco wege, percorso, presente nel titolo originale del libro è sfumato nell’incerto italiano verso) che richiama da un lato la longue durée dei commerci e dei circuiti di scambio transcontinentali e dall’altra la valorizzazione delle «risposte» e degli adattamenti alla sfida europea provenienti dalle regioni di altri continenti.

Gli autori chiamano questa prospettiva «laterale», perché mette a fuoco soprattutto le relazioni trasversali e comparative e punta a decostruire un’immagine della modernità come qualcosa che si afferma in diversi luoghi, in differenti, successivi momenti a seguito di trasformazioni interne alle varie società. La critica di quell’insieme fisso di contrassegni che segnalano la raggiunta o mancata modernizzazione di una società, intendendola come l’irresistibile affermazione della razionalità weberiana occidentale, è utile e opportuna: in base a questa visione – scrivono efficacemente i curatori – gli europei avrebbero fatto irruzione nelle culture e società locali per eliminare quelle pratiche (religiose, igieniche, comportamentali) considerate incompatibili con la modernità.

Uno sguardo più attento dovrebbe cogliere anche gli adattamenti, gli influssi reciproci e i variegati «progetti di modernizzazione» intrapresi su scala mondiale, e se questa ricognizione è nel volume appena abbozzata lo si deve a un’ambiguità di fondo: la storia globale rischia a volte, in queste pagine, di essere confusa con la storia del mondo. Nella sua versione più convincente (ad esempio nel caso della connected history proposta da Sanjay Subrahmanyan) essa non pretende di tradursi in un resoconto alternativo, ma di mettere in luce le connessioni globali che una storia tradizionale, attenta soprattutto alla dimensione nazionale, ha trascurato.

Così, i promettenti spunti dell’introduzione, e specie il proposito di analizzare la transizione verso la modernità come un patteggiamento fra il proprio e l’estraneo (dove l’estraneo sarebbe costituito da un’idea di progresso a tappe fisse, che come un dardo temporale già lanciato avrebbe prima o poi raggiunto tutte le società), si perdono poi in quelle parti del volume che vorrebbero proporre una narrazione a tutto tondo delle vicende mondiali del periodo. Non aiuta la ripartizione assai tradizionale dei capitoli – politica, economia, cultura, società – e soprattutto non aiuta una sorta di ideologia revanscista qua e là affiorante, sostanzialmente mirata a sfumare e sminuire il peso della conquista europea del mondo.
Lo si vede bene nel saggio di apertura di Cemil Aymid, dedicato alla storia politica del lungo Ottocento, un secolo che viene esteso fino alla prima guerra mondiale. Per un verso il testo di Aymid è caratterizzato dalla rivalutazione dell’esperienza imperiale (gli imperi non vanno trattati come una tappa dello sviluppo statuale precedente allo stato nazionale) e per altro verso dalla trattazione di quelle che lui chiama regioni culturali, ma che sono anche allo stesso tempo razziali e religiose, proiezioni di una sorta di geopolitica dell’immaginario.

Tutto il saggio di Aydin si svolge nell’intreccio tra imperi e regioni: la storia sembra prodursi così spontaneamente, come un incontro-scontro di sistemi politico-sociali e culturali variamente articolati. Restano fuori dal quadro l’ideologia, la forza militare, la rivoluzione, lo scontro sociale: per dirlo in una parola la politica. Inoltre, l’insistenza sulla dimensione razziale e sulle dinamiche tardo-ottocentesche conducono a sorprendenti affermazioni, come quella per cui il nazionalismo si sarebbe sviluppato solo nella seconda metà del XIX secolo (trascurando così i nazionalismi greco, polacco, tedesco e italiano) o quello per cui le rivolte antiborboniche dell’America latina non furono espressioni di separatismo anticoloniale ma di non meglio precisati «vari ed eterogenei desideri di sovranità».
Pronto nel notare come all’interno del ricco repertorio del pensiero politico di altre parti del mondo siano stati fievoli gli echi del costituzionalismo e del tema dei diritti civili, Aymid è del tutto silente nei confronti della diffusione degli ideali rivoluzionari, e gli sfugge tanto il nesso tra lotta anti-tirannica e aspirazioni all’indipendenza nazionale quanto la diffusione su scala planetaria dei temi relativi alla questione sociale (per non dire del movimento anarchico).

Accade così che la trattazione di un evento politico di prima grandezza per la storia del mondo come la Guerra dell’oppio, vale a dire l’affermazione delle armi britanniche su quelle cinesi e la conseguente imposizione di nuove regole commerciali (il Celeste Impero, a seguito della sconfitta, dovette accettare in cambio dei prodotti cinesi non più l’argento, come accadeva in passato, ma l’oppio britannico, coltivato in India e Afghanistan) si trova collocato nella sezione dedicata all’economia, scritta con mano sicura da Roy Bin Wong.

Le sue dense pagine affermano come le relazioni dell’Europa con il resto del mondo non possano prescindere da un’analisi del potere politico e dell’uso della forza militare. E aggiungono che, pur condividendo l’aspirazione a non privilegiare gli attori e gli eventi europei, va riconosciuto che l’Ottocento è stato «il periodo di maggiore impatto europeo a livello globale» e anzi «se mai l’Europa è riuscita a dominare il mondo politicamente ed economicamente, è stato nel corso del XIX secolo».