Diciamo tutti Renzi, ma la storia di questo referendum e di questa orribile riforma costituzionale è molto più complessa e dovremmo tenerla ben presente. Renzi e i suoi arrivano buoni ultimi dopo una lunga storia di forzature e modifiche striscianti, sfornano il loro disegno «riformatore» non solo sulla scorta di una serie di precedenti, ma anche, soprattutto, sullo sfondo di un insistente ritornello che ha di fatto, nell’arco di alcuni decenni, impiantato nella testa degli italiani alcune certezze. Infondate, ma irrefragabili.

Fondamentale è l’idea (strategica nelle ideologie autoritarie) che il parlamento sia sede di dibattiti inconcludenti, e causa di ritardi, distorsioni e compromessi retrogradi.

Il parlamento, questa accozzaglia di parvenu animati da uno smodato protagonismo, appare soprattutto un intralcio all’operare fattivo e responsabile del governo. Che si è sì guadagnato la fiducia, quindi il diritto di decidere e fare (per il bene comune); ma sfortunatamente, al dunque, è impedito, perché costantemente costretto a render conto alle Camere, perché comunque subordinato alla loro potestà legislativa, perché, in una parola, spossessato (dal parlamento) della sua concreta ed effettiva autonomia.

Di qui l’invocazione trepidante di una democrazia «governante» o «decidente». Che è risaltata fuori puntuale in questi giorni, ma che imperversò non per caso già nei turbinosi anni di gestazione della cosiddetta Seconda Repubblica, quando l’Italia sperimentò il primo presidenzialismo de facto nell’enfasi decisionale di Bettino Craxi, mentore etico-storico di Berlusconi e dello stesso Renzi.

Già allora fu una parte della sinistra – la componente migliorista del Pci, capeggiata da Giorgio Napolitano – a fare propria questa parola d’ordine. Ben consapevole che essa serviva a liberare i propositi «riformatori» di taluni protagonisti della scena politica del tempo (a cominciare dall’abolizione della scala mobile e, appunto, dal presidenzialismo). E per conseguenza sorda o ostile al tema costituzionale (antifascista) dell’equilibrio tra i poteri fondamentali e della intangibilità della forma parlamentare di governo.

Ora è curioso e anche assai istruttivo (sul piano, come si dice, «intellettuale e morale») che il medesimo argomento del presunto deficit di operatività dei governi torni alla ribalta dopo un buon trentennio, e che a sottoscriverlo siano, tra gli altri amici del presidente Matteo Orfini, anche vecchi teorici operaisti dell’autonomia del politico. Come se – tra leggi elettorali e regolamenti parlamentari – non fosse già cambiato molto da quel dì, proprio nella direzione auspicata dai fautori della prevalenza dell’esecutivo. E come se, soprattutto, ratio della riforma renziana (il presidenzialismo 2.0, basato sul combinato tra legge iper-maggioritaria e modifiche costituzionali) non fosse, paradossalmente, incardinare il massimo di eteronomia del politico: sancire cioè e implementare l’immediata organica dipendenza dei governi e degli Stati nazionali (post)democratici dalle centrali della sovranità economica e finanziaria, dai mercati, dalle imprese transnazionali e dalle istituzioni preposte a governare il capitalismo mondializzato: il Fmi e l’Ocse oggi (non per caso tra i più scomposti fans del disegno renziano) come la Trilaterale ieri, negli anni ’70 assillata dai pretesi «eccessi di democrazia» incombenti sulla stabilità dei paesi europei.

Sta di fatto che un buon quarto di secolo è trascorso sotto una cappa ideologica comune alla destra post-craxiana e alla sedicente sinistra riformista. Lo smantellamento dei partiti di massa, in grado di operare come soggetti collettivi, e la crescente personalizzazione della politica hanno via via consolidato lo schema presidenzialistico, assuefacendo l’opinione pubblica ai dogmi e ai miti del decisionismo e preparando un clima favorevole a una svolta bonapartista. Infine, anche la campagna «moralizzatrice» contro la casta ha contribuito, non conducendo alla selezione di un personale politico più integro e capace e sobrio, ma nutrendo invece l’aspettativa di nuovi Salvatori, cioè ponendo le premesse per il trionfo dei nuovi demagoghi.

Noi oggi confidiamo che il referendum di dicembre marchi un’inversione di tendenza, e qualche segnale sembra effettivamente incoraggiarci. Sarebbe bene tuttavia non sottovalutare l’incidenza di una lunga intossicazione ideologica dell’opinione pubblica, tenere, come si dice, alta la guardia e non lesinare sforzi nella confutazione di falsi argomenti, nella critica di mistificazioni, nella paziente ricostruzione di un senso comune democratico. Se poi questo cimento dovesse persino indurre all’autocritica qualche autorevole leader ieri impegnato nella battaglia «riformista» per la governabilità, tanto di guadagnato.