Le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina rivolte al Sindaco di Riace, così come quelle rivolte alle Ong che prestano soccorso in mare, hanno sollevato in Italia il drammatico tema del «delitto di solidarietà»: come è possibile che coloro che salvano le vite dei naufraghi vengano equiparati a trafficanti di esseri umani? Cosa hanno in comune lo scafista che intasca fino a 2.500 dollari per ogni migrante (dati Onu 2018), e un sindaco che, secondo quanto emerge dall’ordinanza del Gip di Locri, avrebbe organizzato un matrimonio fittizio allo scopo di agevolare l’ingresso in Italia di un giovane somalo, senza alcun tornaconto economico?

Per rispondere occorre fare un passo indietro. Il contrasto al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina faceva parte degli Accordi di Schengen del 1985, che hanno rimosso le frontiere tra gli Stati appartenenti alla (allora) Comunità Economica Europea. Si voleva infatti controbilanciare la libera circolazione all’interno dello spazio europeo con un irrigidimento dei controlli alle frontiere esterne. A tal fine gli Stati membri si impegnavano a sanzionare «chiunque aiuti, a scopo di lucro, uno straniero ad entrare nel territorio in violazione della legislazione». L’obiettivo era evidentemente quello di contrastare l’azione degli smugglers, cioè di coloro che, dietro pagamento di somme di denaro («a scopo di lucro», appunto), avessero in qualsiasi modo agevolato l’elusione dei controlli alle frontiere esterne.

Con l’avvento dell’Unione Europea, l’obbligo per gli Stati membri di sanzionare il favoreggiamento venne rafforzato attraverso il suo inserimento all’interno di una direttiva (n. 90 del 2002) e di una decisione quadro (n. 946 del 2002); con una significativa differenza rispetto al passato: non era più richiesta, come elemento dell’illecito, la finalità di profitto. La novità si giustificava, secondo quanto recentemente ribadito dalla Commissione europea nel Working document on smuggling (2017), per esigenze di carattere investigativo: gli scambi di denaro tra migranti e scafisti, infatti, sono difficilmente tracciabili, sicché in molti casi risulta impossibile per le Procure dimostrarne l’esistenza.

Tale disciplina, tuttavia, presenta un evidente effetto collaterale, ossia la creazione di una rete capace di intrappolare non più solo gli smugglers, ma anche coloro che, pur senza ricavarne un guadagno, abbiano comunque facilitato l’ingresso irregolare. In questo senso dispone, in Italia, l’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione, che incrimina il favoreggiamento con pene assai severe: laddove siano coinvolti cinque o più migranti (si pensi ai salvataggi in mare), la sanzione può arrivare fino a quindici anni di reclusione, paragonabile per severità a quanto previsto per la rapina, l’associazione mafiosa, la violenza sessuale nei confronti di un bambino. È anzitutto il buon senso, prima ancora del principio costituzionale di proporzionalità della pena, a ribellarsi ad un simile assetto normativo.

Fortunatamente non mancano gli strumenti giuridici per evitare che i procedimenti penali, comunque attivati, portino ad esiti manifestamente ingiusti. Nel caso della nave Open Arms, ad esempio, il Gip di Ragusa ha disposto il dissequestro dell’imbarcazione rilevando che l’equipaggio aveva agito in stato di necessità, stante il rischio che i naufraghi fossero raccolti dalla guardia costiera libica e riportati nei campi di detenzione dove avrebbero subito violenze di ogni genere. Eventuali future sentenze di assoluzione, tuttavia, non impediranno che le indagini e i processi continuino a svolgersi, con conseguenze prevedibili in termini di riduzione delle attività di solidarietà.

Eppure basterebbe poco per porre fine a questi procedimenti inutili e dannosi. Se le parole d’ordine dell’agenda sull’immigrazione sono davvero «guerra agli scafisti» e «tutela della vita umana», sarebbe sufficiente tornare a prevedere che lo scopo di profitto sia un requisito indefettibile del reato di favoreggiamento dell’ingresso irregolare. L’attuale legislazione, al contrario, sembra rispondere alla volontà di predisporre un vero e proprio muro legislativo per ridurre i flussi migratori e impedire che vengano a crearsi corridoi umanitari di ingresso in Europa. Poco importa se lo strumento è a dire poco sproporzionato al risultato e ha un costo enorme in termini di vite umane; nelle attuali scelte politiche, la logica del «fine che giustifica i mezzi» sembra infatti avere ormai soppiantato quella dell’equilibrio, del buon senso, della solidarietà.

* Francesca Cancellaro, avvocata del Foro di Bologna
** Stefano Zirulia, docente di Diritto penale dell’Unione europea presso l’Università degli Studi di Milano