I 5 stelle hanno impostato la campagna referendaria per il sì al taglio dei parlamentari con l’argomento della riduzione dei costi della politica. Meno rappresentanti, meno costi della politica. Spesso, da sinistra, si è risposto, sullo stesso terreno. Con l’affermazione che è meglio ridurre gli stipendi di deputati e di senatori, anziché tagliarne il numero.

Sono, a mio avviso, argomenti che non toccano la sostanza della questione. I veri costi della politica sono altri e il referendum per il sì è l’ultimo atto di una deriva populista e demagogica che ha di mira la centralità del Parlamento. Se vogliamo parlare seriamente di costi della politica dovremmo inoltrarci nella selva di leggine nascoste nell’articolato delle finanziarie e delle «mille proroghe», con cui spesso si distribuiscono, senza criterio, mance e prebende a clienti vari e a diversi territori.

Costi della politica sono i provvedimenti approvati sulla spinta di pressioni lobbistiche. Miliardi pubblici sparsi in tutte le direzioni. Anche i Consigli regionali non sono da meno nello spreco di denaro pubblico: si finanziano finte associazioni, sagre, eventi culturali e non, micro-progetti di vario tipo per accontentare le più disparate richieste in cambio di qualche voto.

Non si tratta di fare di tutta l’erba un fascio, ma di censurare la distribuzione a pioggia, funzionale solo a chi vuole curare interessi particolari. Rientrano nei costi della politica anche i bonus concessi dal governo Renzi a insegnanti e diciottenni, in modo indiscriminato, e spacciati per un grande sostegno alla cultura.

Sarebbe stato meglio, con quei soldi, finanziare biblioteche scolastiche e comunali, chiuse e inattive, o altre istituzioni culturali in difficoltà. E se vogliamo dirla tutta, costi della politica sono i bonus vacanze, i bonus baby sitter, i tanti sussidi erogati a prescindere dal reale bisogno. Per non parlare delle agevolazioni fiscali date a imprese che durante la pandemia hanno incrementato il loro fatturato o della cassa integrazione richiesta e ottenuta da imprese che non hanno mai smesso di lavorare a pieno regime.

Costi della politica sono gli enti inutili, dichiarati tali da decenni, ma che sopravvivono a carico del bilancio statale. Costi della politica sono anche quelli derivanti dalla tolleranza e acquiescenza dell’amministrazione pubblica verso quanti, immotivatamente, evadono le imposte. E potremmo continuare con questo elenco. I danni prodotti sono enormi non solo sul piano economico e finanziario, ma anche su quello democratico e del rapporto cittadini-istituzioni.

Ma il costo della politica più rilevante è dovuto al logoramento dei rapporti tra le istituzioni, che, anziché collaborare, spesso sono in conflitto tra di loro. Quante volte, nella fase drammatica dell’emergenza Covid, e anche dopo, abbiamo assistito a polemiche di presidenti regionali contro il governo, che certo non hanno giovato al coordinamento, alla tempestività e all’efficacia dell’azione pubblica.

Sappiamo che la quantità, la qualità, gli stessi costi della sanità, della scuola, dei trasporti, e di tutti gli altri servizi pubblici, dipendono in grande misura dalla capacità di coordinamento tra le istituzioni e tra le rispettive amministrazioni. La mancanza di cooperazione tra governo e regioni pesa negativamente sull’efficienza complessiva e determina grandi sprechi. Non è stato un bello spettacolo vedere i cosiddetti «governatori» pretendere di decidere da soli sulla circolazione delle persone tra territori e regioni, sull’apertura o chiusura di attività commerciali, di pubblici esercizi o di aree colpite da focolai di contagio.

Il governo, tante volte, è stato costretto a rivolgersi al Tar (tribunale amministrativo regionale) per sospendere o annullare ordinanze dei presidenti di regione, emanate in contrasto con decisioni nazionali, spesso per ragioni di visibilità mediatica. Questa situazione determina costi della politica incalcolabili, da tutti i punti di vista.

La questione è tanto più importante in quanto si avvicina il momento delle scelte sul Recovery fund. Le Regioni, ma anche le città, si candidano a gestire questi finanziamenti e avanzano proposte. E’ però inaccettabile lo spirito competitivo e rivendicativo che si evince dalle dichiarazioni dei cosiddetti «governatori» regionali, alcuni dei quali guardano con fastidio al ruolo del governo e del parlamento nel definire i programmi. Si vorrebbe una quota parte di risorse da spendere col «fai da te». Mi sembra una politica che tenta di imporre nei fatti un’idea di autonomia differenziata foriera di ulteriori divisioni e disparità sociali e territoriali, del tutto in contrasto col dettato costituzionale. L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, non su venti staterelli. Dov’è finito lo spirito di solidarietà e di cooperazione tra i diversi livelli istituzionali auspicato dalla nostra Costituzione?