Nel 1975 un pool di autorevoli intellettuali stilava, per la Commissione Trilaterale – un autorevole think thank conservatore, al di là della leyenda negra che la circonda – un ampio “Rapporto sulla governabilità delle democrazie”. La stesura del rapporto rappresenta una cesura fondamentale nella storia della battaglia delle idee novecentesche, in quanto suonò la diana per quella riscossa neo-conservatrice che poi a partire dal decennio successivo dispiegò per intero la propria egemonia. Si trattava, secondo Crozier, Huntington e Watanuki, di salvare la democrazia liberale, attraverso la concentrazione del potere di governance nelle mani di élites tradizionali, da quell’”eccesso di domanda” che aveva caratterizzato il ciclo dei “trenta gloriosi”.

Affinché ciò avvenisse, lo scontro politico si doveva ridurre ad un gioco a somma zero tutto ricondotto nel recinto delle classi dirigenti. Il ceto politico doveva in qualche maniera essere reso avulso dallo scontro tra interessi contrapposti inerente ad una società divisa in classi portatrici di interessi – e di disegni politici – contrapposti. Non a caso, a partire dal decennio successivo, parlamento e sindacati di classe furono messi sotto attacco, in quanto istanze responsabili di quell’ “eccesso di domanda”, e più in generale in quanto case di rappresentanza e di sintesi di interessi contrapposti.

Proprio in Italia, un filo rosso in questo senso lega la Grande Riforma di Craxi, la Bicamerale Berlusconi-D’Alema e il progetto Renzi. A livello di senso comune, la realizzazione di questo disegno elitario presupponeva che fette vieppiù crescenti di popolazione – sostanzialmente, i ceti subalterni – smettessero di cercare nella politica risposte collettive ai propri problemi.

Le recenti elezioni europee si iscrivono a pieno in questo ciclo politico-culturale. Le analisi dei flussi elettorali, per rimanere al caso italiano, lo dimostrerebbero. All’altissima astensione, i ceti popolari hanno contribuito in maniera copiosa. Tra quelli che si sono recati alle urne, chi concepisce la propria situazione come “disagiata” si è rivolto in larga misura al M5S. Anche ciò che resta del berlusconismo, oltre alla Lega, vive di una certa sovrarappresentazione in questa fascia di popolazione, mentre il Pd, e addirittura la lista Tsipras, vedono un sostegno tra le suddette classi disagiate inferiore alla percentuale totale di elettori raccolta.
La viscosità sociale a sostegno delle varie forze in campo appare insomma, più che un riflesso di fenomeni reali certo presenti nella società – la scomposizione della classe operaia in una miriade di lavori e di contesti sociali – una diretta conseguenza dell’espulsione di un intero blocco sociale dall’arena politica.

Quali le forze sociali rimaste in campo, dunque? Per rispondere a questa domanda, la metafora usata da Renzi in campagna elettorale, del derby tra la rabbia e la speranza, non è da derubricare a boutade sloganistica. Si affrontano, da una parte, un ceto medio colto, cosmopolita, abituato alla politica, soddisfatto economicamente e socialmente o comunque speranzoso di giungere all’ambita soddisfazione. Magari attraverso la politica: direttamente, con la distribuzione di cariche, o indirettamente, attraverso la ripresa dell’erogazione della spesa pubblica, non necessariamente in termini clientelari.

Dall’altra è in campo un ceto medio incattivito, che vede a rischio il proprio status, poco incline all’accoglienza del “diverso”, individualista e insofferente nei confronti dello Stato inteso come comunità di regole, salvo poi pretendere elargizioni sia in termini clientelistici che in termini di defiscalizzazione. Come spettatori, si assiepano sugli spalti, in basso, i ceti subalterni, che assistono alla querelle con indifferenza o insofferenza. Dall’alto una occhiuta élite, incaricata di sorvegliare che lo spettacolo non produca eccessi rimarchevoli.

A ben vedere, il successo del Pd renziano risiede nella sua capacità di pescare consenso maggioritario tra tutte le parti in campo; in misura minore questo vale anche per il M5S, mentre la destra mantiene, pur disperso in più formazioni, il proprio zoccolo duro tra gli “arrabbiati”.
Se questo è il panorama, attendere un effettivo cambiamento in base a soluzioni miracolistiche appare vano. Nell’osservare il panorama europ«eo da un contesto distante anni luce – anche culturalmente – il sociologo marxista brasiliano Emir Sader si diceva colpito non tanto dalla mancanza di progetti alternativi in campo, quanto dalla mancanza del fermento sociale sufficiente a farli lievitare. Un fermento sociale che era stato l’ingrediente fondamentale per il cambiamento di rotta poi verificatosi sul piano politico nell’America Latina che, a partire dai primi anni duemila, ha iniziato a prendere coscienza del fallimento del paradigma neo-liberista.

In realtà il panorama non è così univoco, ma è senz’altro vero che forze di sinistra di alternativa, portatrici di un’ipotesi di cambiamento forte, sono uscite rinvigorite laddove – Spagna e Grecia in primo luogo – movimenti di resistenza hanno preso forza prima di tutto nella società, e forze politiche strutturate e credibili ne hanno sintetizzato le esperienze e le esigenze. In mancanza di questa spinta dal basso, specialmente ad opera del movimento dei lavoratori – anche la più raffinata ricetta per “uscire dalla crisi da sinistra” è destinata ad un ben misero riscontro. Si tratta di rompere quel recinto così sapientemente architettato, ormai quarant’anni fa, nel “Rapporto sulla governabilità delle democrazie”.