La legge di stabilità fa il suo corso, tra apparizioni in tv e metodo del televoto per stabilire quali provvedimenti modificare, a seconda degli umori di quella parte di italiani che ancora guarda i talk show e che almeno in parte non riempie le sacche dell’astensionismo. Quel che pare sfuggire al dibattito animato in questi giorni, è il carattere redistributivo della manovra.

Innanzitutto, il governo ha accantonato la questione occupazione, nonostante i tre milioni di disoccupati, una ripresa occupazionale stantia e una nota Eurostat che indica come, nel secondo trimestre del 2015, l’Italia vanti non soltanto il primato per la percentuale di disoccupati diventati inattivi, ma si collochi in basso alla classifica tra gli Stati europei per la quota di disoccupati che riescono a trovare un lavoro tra il primo e secondo trimestre del 2015, il periodo del JobsAct. Delle politiche per l’occupazione rimangono gli sgravi contributivi, ridotti a un limite di 3.250 euro annui per dipendente per due anni: la spesa prevista per il 2016 è di 831 milioni (e di oltre 1,5 miliardi nel 2017) che vanno a sommarsi agli sgravi già in essere. Il governo stima un milione di nuove assunzioni a tempo indeterminato (ormai stabilmente precarie dato il contratto a tutele crescenti). La conferma del bonus avviene all’oscuro di una vera e rigorosa valutazione di questa misura, non ci si è chiesto infatti quanti sono gli sgravi dati alle imprese con meno di 15 dipendenti, per cui l’articolo18 non si applicava neppure in precedenza, rendendo lo sgravio un trasferimento netto a questa tipologia d’impresa, oppure quante tra le assunzioni beneficiarie degli sgravi sono già cessate. A conferma che il governo non è interessato ai risultati reali, ma sensibile alle sirene della propaganda.

Ancora più grave appare la determinazione del governo a elargire sgravi senza nessun vincolo né in termini di occupazione netta e non mera sostituzione tra lavoratori, né tantomeno in termini di nuovi investimenti per aumentare almeno in parte la competitività delle imprese piuttosto che farle sopravvivere sempre e soltanto grazie ai tagli sul costo del lavoro, mistificando il concetto stesso di produttività.

La legge di stabilità interviene sul welfare spostando l’asse della contrattazione dal piano nazionale a quello aziendale, principalmente deresponsabilizzando rispetto alla tutela dei bisogni materiali dei cittadini, occupati e non.

Mentre si defiscalizza il welfare aziendale, viene meno quello pubblico: ad esempio, nulla si sa dei famosi 1000 asili in mille giorni annunciati a fine agosto 2014 dal premier. Nessun intervento per il diritto alla casa per cui l’Italia continua a spendere lo zero percento del Pil, nonostante l’aggravarsi delle condizioni abitative a cui si risponde sempre più spesso con un aumento vertiginoso della repressione nei confronti di tali rivendicazioni dal basso. Infine, nonostante gli sgravi per le assunzioni e il maggior potere contrattuale accordato alle imprese in termini salariali rispetto al contratto nazionale, il governo ha pensato di premiare ulteriormente la classe imprenditoriale italiana con il taglio dell’Ires (condizionato al parere di Bruxelles sulla clausola migranti): altri 3,5 miliardi alle imprese come riduzione delle tasse sui redditi da capitale, quelli che un tempo avremmo chiamato senza mezzi termini profitti. Un chiaro esempio di come la distribuzione dei redditi e della ricchezza continui a premiare il capitale a discapito del lavoro, nonostante sia ormai chiaro anche alla Troika che la riduzione della quota salari sia una delle determinanti dell’aumento delle disuguaglianze negli ultimi trent’anni. Sarebbe bastato poco per capire che quei tre miliardi spesi per il sostegno al reddito delle fasce di popolazione vulnerabili alla povertà avrebbero comportato non soltanto un aumento della domanda interna, ma almeno in parte un riassorbimento delle disuguaglianze, fenomeno crescente di cui il governo non soltanto si disinteressa, ma anzi pare favorirne l’ascesa.

Che la politica del governo in carica sia antitetica all’articolo 3 della Costituzione, che rimanda al principio di uguaglianza sostanziale da perseguire attraverso l’intervento dello Stato, è infine confermato dal taglio dell’Imu sulla prima casa e lo sconto ai proprietari di ville, castelli e abitazioni di lusso, che costerà alle casse pubbliche altri 3 miliardi. Un taglio lineare che colpevolmente non tiene conto del principio di progressività delle imposte. Se da un lato, l’Italia vanta una percentuale di proprietari superiore alla media europea, dall’altro la distribuzione del patrimonio immobiliare non riguarda tutti allo stesso modo, di conseguenza un taglio indifferenziato andrà necessariamente a beneficio di chi possiede di più, non solo per il risparmio monetario legato alla detassazione, ma soprattutto per la corrispondente riduzione della spesa pubblica, per servizi come la sanità, di cui maggiormente beneficiano le famiglie meno abbienti.

Se c’è una cosa che caratterizza questo governo, attento a non urtare l’umore di una parte della popolazione, quella meno colpita dalla crisi, è la totale avversione nei confronti della giustizia sociale e della redistribuzione, affiancata da una palese incompetenza nel gestire esigenze strutturali, quali gli investimenti, l’innovazione e una visione di politica industriale di ampio respiro.