La Cgil invita a votare No al referendum perché la legge Renzi-Boschi “introduce, senza migliorare la governabilità né il processo democratico, un rischio di concentrazione dei poteri e delle decisioni: dal Parlamento al Governo, dalle Regioni allo Stato Centrale”.

Una posizione, quella della Cgil, coerente con la sua storia e le sue battaglie, fin dalla proposta di Statuto dei Lavoratori motivata da Di Vittorio nel congresso del 1952 con la necessità di “una legge per portare la Costituzione nei luoghi di lavoro”. E tuttavia, forse a causa della decisione di non impegnarsi direttamente nella campagna referendaria, anche l’ordine del giorno dell’assemblea generale della Cgil rischia di lasciare in ombra le conseguenze dirette della revisione costituzionale proprio sulla efficacia dell’azione sindacale.

Se contestualizziamo l’attacco alla Costituzione all’interno di un conflitto organico, di portata non banalmente “cosmetica” o “revisionista” sotto il puro profilo dell’efficienza – come si tende da troppe parti ad avallare, si capisce meglio la premura con cui auspicano – a ogni cader di foglia – la prevalenza dei Sì i grandi fondi multinazionali, i gruppi finanziari e le banche mondiali, gli ambasciatori più conservatori, i governi che hanno schiantato con l’austherity la Grecia di Tsipras e l’Europa sociale.

Travolti dal diluvio intricato di modifiche e di capoversi prolissi in cui ci si confonde, la questione che viene elusa è cosa rimarrà effettivamente della democrazia sociale con cui i costituenti hanno cancellato il ventennio fascista e che la sinistra e il sindacato hanno praticato per realizzare nel nostro Paese un livello di partecipazione civile prima sconosciuto.

La nostra lunga esperienza nella Cgil, tra scioperi, assemblee e vertenze, ci ha insegnato come e quanto l’asimmetria nel rapporto di lavoro si potesse recuperare solo quando il pluralismo sociale risultava legittimato nel Parlamento, con intatti poteri di rappresentanza e con una dialettica tra principi di democrazia formale e sostanziale su cui è stata impostata la Repubblica fondata “sul lavoro” contro il primato dell’impresa. Tutta la rete di rapporti istituzionali collegati al popolo, tramite Assemblee che, dal territorio al centro dello stato, operavano da ponte rispetto alla base sindacale e sociale, creava lo spazio per i diritti del lavoro, che, verrebbero travolti in assenza di poteri riconosciuti. Quante volte le vertenze più dure, i contratti più combattuti, i diritti più innovativi non si risolvevano solo nei rapporti di forza entro i luoghi di lavoro , ma esondavano da essi e rimbalzavano nelle interrogazioni di senatori e deputati, nelle commissioni parlamentari, nel coinvolgimento del Governo che ne doveva rispondere, di qualunque colore fosse, all’assemblea degli eletti e, “giù per li rami” ai consigli regionali e comunali dove assistevano lavoratrici e lavoratori in carne e ossa.

A poco vale mantenere inalterata la Prima Parte, se nella Seconda viene organicamente previsto il superamento del “governo parlamentare” a sovranità popolare, per approdare – con l’ulteriore suggello dell’Italicum – ad un “governo dei designati” che predomina sull’attività di Camera e Senato. E non a caso dopo che la Prima Parte era già stata lesa con la cancellazione – con voto di fiducia – dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che aveva rappresentato appunto l’ingresso della Costituzione “al di là dei cancelli aziendali”
Ragioniamo sul testo della revisione. Forse è sfuggito a molti il significato della costituzionalizzazione del primato del Governo sul Parlamento nel definire l’o.d.g. e la via preferenziale delle leggi che attuano il suo programma. Paradossalmente, per l’intera legislatura si potrebbe legiferare solo su iniziativa del Governo. Ma se un “governo del capo”, predomina sul Parlamento e, quindi, sulla rappresentanza dell’intera società è il lavoro che ne subisce le conseguenze più pesanti, dato che l’efficacia delle lotte sindacali e la dialettica democratica si esplica solo se c’è rappresentatività delle organizzazioni che le dispongono in luoghi che mantengono il loro potere.

Due i punti chiave che contestiamo. 1) Lo spostamento del potere legislativo in capo al Governo, inserito di soppiatto nella “revisione costituzionale”, nel rigo 27 dell’art. 12, dove si assegna al governo il potere di chiedere all’organo del “monocameralismo”, cioè alla Camera, di deliberare che “un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorità all’o.d.g. e sottoposto alla votazione finale del Parlamento entro 60 giorni dalla richiesta”. In questo modo viene introdotta l’alterazione della forma di governo parlamentare, rendendo il governo padrone dei lavori dell’assemblea, anche a discapito del ruolo dei partiti. 2) La sudditanza del Parlamento rispetto al Governo incide anche sul diritto di pace, essenziale per una democrazia sociale. Il nuovo articolo 78 prevede che “La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra per conferire al Governo i poteri necessari. Con i premi di maggioranza e le designazioni si aprirebbe la strada al diritto di guerra come esclusiva del governo.

Questi aspetti così centrali sono quasi unanimemente oscurati nel dibattito in corso e a queste riflessioni occorre conquistare giovani, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini che aspirano ad un futuro di giustizia.