Alcune nascono in spazi occupati, strutture dismesse, centri sociali, molte nei quartieri periferici e nelle zone di degrado sociale, affinché contaminazione e sudore siano il motore per la vera vittoria, quella contro il pregiudizio e l’emarginazione. Recupero della socialità e del corpo in un contesto di controcultura e autogestione fuori dalle leggi del mercato: sono le palestre popolari nell’anno 2015, avamposti resistenti dove la scuola della strada trova forma, disciplina e riscatto, perché lì non si trattano calci e pugni, ma sport, tolleranza, preparazione fisica e psicologica. Le palestre popolari San Lorenzo, Quadraro e Corto Circuito di Roma, Boxe popolare di Cosenza o Antifa Boxe a Torino sono quelle con più storia alle spalle, alcune con 300-400 iscritti e atleti/e che vincono titoli e medaglie a livello nazionale ed europeo. Ma quando domandiamo quali siano le palestre più blasonate a Teo Molin Fop, della palestra di Vicenza, ci imparte subito un insegnamento: «La straordinaria eterogeneità di esperienze da una parte e la crescita qualitativa dall’altra, portano al fatto che non esista “la o le palestre popolari più importanti”».

Quello delle pp è un percorso lungo, che nasce nell’orbita antagonista degli anni ’90 e che lentamente si è radicato in tutto il territorio. Teo: «Se le prime esperienze erano principalmente di pugilato o di arti marziali in un’ottica strettamente antifascista, ora offrono corsi delle più svariate discipline, dalla muay thai al tessuto aereo, passando per ginnastica per bambini o anziani. Ogni palestra ha la sua storia, la sua autonomia, risponde ad esigenze che dipendono dal territorio in cui sono inserite, ma tutte portano avanti un’idea di sport accessibile, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista dell’antirazzismo e dell’antisessismo». In un certo senso è come si sia fatto breccia anche nella sinistra il culto del corpo, ma non dal lato egotistico: «Non è una questione di “culto del corpo” a livello estetico, come viene proposto dalle palestre di fitness, ma è il tentativo di restituire un’idea di wellness, ossia di benessere psico-fisico. Le pp hanno un ruolo importante, perché intercettano fasce di popolazione che, per varie ragioni, altrimenti non farebbero sport». Il fatto che le palestre siano rivolte a sinistra, viene da pensare, può creare diffidenza: «Parlando della mia città, probabilmente per alcuni può generare dei pregiudizi, però in ultimo contano la sostanza e i fatti. Quando offri qualità di insegnamento, un ambiente accogliente e non competitivo a un prezzo modesto, anche le persone più sospettose arrivano». Una dimensione che viene in aiuto alle esigenze del quartiere: «Se nascono dall’occupazione di spazi abbandonati investono subito il tema della riqualificazione urbana dal basso, sono espressione di riappropriazione del diritto alla città e una forma di resistenza alle operazioni di speculazione edilizia che si attuano nelle città».

Matteo Giacometti della palestra popolare di Padova è dal ‘95 un sostenitore della disciplina muay thai: «Dieci anni fa ho aperto una palestra che ospitava diverse attività come kung fu, danza del ventre, yoga e attività per bambini. Sono stato affiliato prima Arci e poi Uisp. Il mio impegno ha attraversato i centri sociali e le realtà di movimento, in particolare attraverso il comitato di quartiere Portello, dove ho avuto la sede per 8 anni, cominciando a legare la palestra all’intervento sociale e politico territoriale».

Matteo ha avviato i corsi di muay nei centri sociali Bocciodromo di Vicenza e Rivolta di Marghera, ma si occupa anche del campionato Thai Culture Tournament della Uisp. Lo slogan del torneo è molto chiaro: No fear! No racism! Ring per tutti. Nelle gare c’è un clima di serenità, si sente la competizione ma conclusi i combattimenti gli atleti si ritrovano a conversare e mangiare insieme: «Ovviamente la base etica ci contraddistingue, è per tutti ma non per chi propone aberranti messaggi tipo White Rex, Circolo combattenti Casa Pound e altri beceri personaggi che ogni tanto puoi incontrare nei match federali o nei gala commerciali».

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A giugno Casa Pound ha organizzato l’evento Tana delle Tigri a Roma, combattimenti che evocano vichinghi, pretoriani e crociati, al loro combattere per l’onore, la gloria, le idee (cit.). Basterebbe dire che si affrontavano dentro una gabbia metallica. «Ci interessa includere il più ampio spettro dei livelli sportivi da amatori a pro, mantenendo l’originalità dello stile e della cultura thai. Fondamentale è la qualità elevata e non scadere nel folklore politico ma essere rete sociale».

Marco Barboni ha avviato la pp a Macerata, è appena sceso dal ring, sul petto ha tatuato il volto di suo padre: «Abbiamo cominciato con degli amici per allenarci in uno spazio accessibile economicamente. Si è sparsa la voce e in breve si è creato un ambiente molto positivo, con iscritti universitari e ragazzi/e che praticavano altre discipline. Gli unici a lamentarsi sono stati i gestori di altre palestre». Come si sente chi entra per la prima volta in un contesto simile? «Si accorge che non c’è un proprietario, siamo soci e ognuno con le proprie risorse e il proprio impegno partecipa alla gestione.

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Oltre allo sport nascono amicizie e interessi comuni, alcuni avevano vecchi rancori, ora escono insieme. È un luogo socializzante, fuori dagli stereotipi della violenza delle arti marziali». Mettiamo arriva uno per allenarsi e ha una svastica tatuata… «Siamo antifascisti, se la nasconde e non fa politica, nessuno gli dice niente. Nello statuto però c’è l’antirazzismo e non credo che un tipo del genere si avvicinerebbe. La cosa interessante restano i genitori: quando vengono agli incontri dei figli non sono mai furiosi come potresti vederli nelle gradinate di un campo di calcio».

Lorenzo Piazza del centro sociale Tpo di Bologna: «La pp è nata 6 anni fa, presto ci siamo costituiti come associazione sportiva dilettantistica e federati alla Uisp. Da poche decine di iscritti siamo passati a diverse centinaia perché, anche se da dentro al centro sociale, ci rivolgiamo alla città.

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Siamo in un quartiere di palazzoni popolari con parecchi immigrati, assieme agli educatori di strada abbiamo costruito un progetto rivolto agli under 18 per inserirli all’interno delle nostre attività sportive. Molti di questi ragazzi, con percorsi di vita difficili, portano le loro contraddizioni e problematiche, al principio è stata dura ma oramai c’è conoscenza reciproca e un consolidato un dialogo costruttivo».

Anche a Brescia, dove la Lega è forte, c’è la pp Antirazzista. Stefano Capo di Ferro ci racconta: «Gli sport da combattimento sono sempre stati spacciati come un mondo di machismo, di forza e di prevaricazione, sempre sventolati dalle destre come la loro arma per prevaricare sul più debole. Di conseguenza noi lediamo tutto l’equilibrio, affrontare diversamente uno sport da combattimento significa colpire al cuore della bruttezza che c’è in generale in Italia, ma in particolare in città come Brescia. Proponiamo uno sport che vuol dire l’esatto opposto: rispetto, umiltà, integrazione, conoscenza di sé stessi, del proprio corpo e della propria mente. Culturalmente si sta creando qualcosa di molto potente». La location non è a caso: «Lavoriamo in un quartiere densamente popolato da migranti e persone povere con realtà difficili. A livello politico e sociale è importante essere lì, si sta con chi il razzismo lo vive ogni giorno sulla propria pelle.

 

I migranti stanno pian piano arrivando, insieme superiamo le difficoltà pratica di comunicare con comunità spesso estremamente chiuse». Stefano ha appena accompagnato al ring un atleta marocchino della sua palestra, uno dei migliori, ci tiene a sottolineare: «Il rapporto che si sviluppa è di fratellanza, capisci che dall’altra parte c’è una persona come te, che prova paura e le tue stesse sensazioni. Nasce un rispetto che fatico a trovare in qualsiasi altro ambiente: ci si confronta e si combatte per crescere, non per annientare l’avversario».